ciato a perseguitarmi al punto che non avevo potuto fare a meno di lamentarmi. A quell'epoca, avevamo già ottenuto il divorzio ma ancora nulla era stato deciso riguardo a nostro figlio che aveva tre anni. Una volta il padre del bimbo mi aveva telefonato mentre l'autista era presente; vorgognandomi che mi vedesse mentre rispondevo piena di imbarazzo, gli avevo spiegato tutta la situazione e gli avevo chiesto fingendomi tranquilla perchè mai non riuscissi a farmi capire. "Perché parli a vuoto" aveva risposto semplicemente. "Quando telefona, non dire niente e abbassa subito il ricevitore". "Ma non posso" avevo detto. "In fondo si tratta dell'uomo con cui ho vissuto finora". Questa mia risposta metteva l'autista di cattivo umore. "E allora, perchè non continuate a stare insieme?" Replicava con qualche frase balorda e anch'io mi innervosivo. "Non riesci a pensare ad altro che a questo? In ogni rapporto ci sono delle forme da rispettare. Non si tratta di una lite fra bambini". Eppure, come sosteneva l'autista, in quelle circostanze, ogni cosa che dicevo nei confronti del padre del bambino, era solo una scusa per il mio modo di agire. Anche quando gli avevo parlato per telefono la prima volta, meno di un mese dopo la separazione, non mi era stato possibile comportarmi con naturalezza, come un'amica, per quanto ciò fosse ovvio, ed ero rimasta a lungo senza parole, stringendo il ricevitore fra le mani. Non volevo che mi portasse via il bambino e io stessa mi meravigliavo dell'intensità della mia paura. Per questo timore, non osavo dire che il bambino stava bene, né che si era ammalato; non trovavo le parole ma non riuscivo neppure ad abbassare il ricevitore, per timore che l'altro andasse in collera. Al padre del bambino, che desiderava incontrare il figlio, avevo più volte spiegato timidamente che capivo bene il suo stato d'animo ma preferivo che aspettasse finché tutte le pratiche burocratiche fossero sistemate. Del resto, non mi aveva neppure fatto sapere dove viveva e come. Quando mi limitavo a parlargli di questo, la sua irritazione aumentava. Mi diceva che bisognava dare assoluta priorità al suo desiderio di vedere il figlio. Gli rispondevo che viceversa occorreva anche capire il mio stato d'animo e che se solo fosse stato possibile avrei evitato quell'incontro; in tal modo, lo esasperavo ancora di più. Per i primi due mesi si andò avanti così, eppure ancora il suo ricordo non mi tormentava. Nello stesso periodo, il giovane autista che aveva guidato il camion quando io e il bambino avevamo cambiato casa, cominciò a venire ogni sabato a passare la notte con me portando ogni volta qualche regalo che poteva piacere a mio figlio. Per prima cosa aveva portato nel mio nuovo alloggio un frigorifero ed un televisore usati, due oggetti di cui eravamo rimasti privi quando il padre del bambino se ne era andato, e che ancora non avevo potuto comprare con i miei guadagni. Si trattava di un regalo che non potevo accettare senza sentirmi riconoscente. Inoltre, era molto bravo a giocare con il bambino. Ed era proprio mio figlio che aspettava con impazienza che l'autista venisse a trovarci. Osservandolo mentre si faceva compagno di giochi del bimbo, io preparavo il pranzo e disponevo i fiori in mezzo alla tavola. Quando veniBibIiotecaGino Bianco STORIE/TSUSHIMA va la notte ero io, questa volta, che mi aggrappavo a lui. "Ti piace davvero tanto" diceva l'autista ridendo e cercava il mio corpo più volte ogni sera. Mi chiedevo con un certo malessere se davvero potesse piacermi tanto; eppure per evitare che si accorgesse del suo errore, rispondevo al suo desiderio come se stessi facendo un esame di ginnastica a scuola. In un certo modo, era un periodo sereno. Ma un giorno avevo incontrato per caso, presso alcuni conoscenti, il padre del bambino e da quel momento avevo perso anche il fragile equilibrio che avevo finora mantenuto. Si trattava di una famiglia di amici dove ci eravamo recati spesso, quando eravamo ancora marito e moglie. Quella volta, avevo lasciato il bambino a casa loro ed ero uscita per incontrare alcuni compagni delle scuole elementari che non vedevo da vent'anni. Avevo accennato ai miei amici che ero stata invitata a quella riunione. "Va pure tranquilla. Penseremo noi al bambino" mi avevano risposto. Avevo accettato ed ero uscita di sera, cosa che da tempo non avveniva. Era stato un incontro piacevole. Dapprima ci eravamo immersi nei discorsi del passato: "lo mi ricordo questo, io quell'altro". Poi, ciascuno di noi, liberamente si era messo a parlare del presente. Quattro ore erano trascorse veloci. Al momento di uscire dal locale, mi ero accorta che era già passata l'ora in cui avevo promesso di rientrare e a malincuore avevo lasciato il gruppo. Mentre mi affrettavo verso la casa dei conoscenti, con le guance in fiamme, continuavo a pensare a ciò che mi aveva detto poco prima un'amica, ancora nubile. Aveva cominciato a parlarmi come presa da un'emozione improvvisa. "... Da tempo ogni tanto mi capiva di pensare a cose balorde ma questa volta non riesco a togliermi dalla mente l'idea della reincarnazione. È un pasticcio. Certo, la reincarnazione. Anch'io finora facevo una gran confusione e non ci badavo più che tanto; poi ho provato a dare un'occhiata a qualche libretto, ho riscoperto dopo tanto tempo certe parole e ho cominciato a pensare. Per esempio, quello che nella chiesa cristiana chiamano peccato originale, qui da noi, interpretato liberamente, non potrebbe essere proprio il principio della reincarnazione? Oppure, non potrebbe significare che il nostro universo, in teoria, seguita a contrarsi e a espandersi a ripetizione? Discorsi di questo genere. E allora, potrebbe darsi che tutti, prima della nascita, abbiamo già un carico sulle spalle a cui non si può sfuggire, ma che neppure si può includere nella sfera delle responsabilità individuali. Non sarà davvero così? Mi sembra tanto semplice accettare questo discorso. Come se mi sollevasse da un peso. Che sia forse per via dell'età? Se non potessi pensare che l'esistenza precedente è stata sbagliata, credo che l'odio verso me stessa finirebbe per soffocarmi ..." "Certo non sarebbe una cattiva idea se anche io pensassi che la mia esistenza precedente è stata sbagliata. Ho imparato una cosa utile. Non sarei più tormentata dall'illusione di essere una persona ammodo, di dover amare tutti". Avevo risposto, mentre mi affiorava alla mente il pensiero dell'odio e del desiderio che portavo dentro di me. Pensavo che se davvero avessi potuto credere nella reincarnazione, mi sarei sentita salva. Ancora piena di entusiasmo, avevo bussato alla porta dei miei conoscenti e senza aspettare risposta ero entrata. Subito 21
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==