L'ISOLADELLAFELICITÀ Yukio Tsushima mon avevo chiesto al giovane autista quanto fosse distante quel posto. Avevo continuato a pensarci ma l'autista si era apparentemente dimenticato anche di avere a suo tempo fatto quel discorso e avevo esitato a fargli domande. Poi non lo incontrai più. Probabilmente era un fatto che risaliva a più di dieci anni prima. "Ricordo che una volta mi è successo questo". L'autista aveva cominciato a parlarmene con aria nostalgica, osservando mio figlio che giocava sulla sabbia, ai giardini pubblici. "Ormai anche quei bambini saranno diventati grandi!" Per i bambini di allora, il camion dei rifiuti guidato dall'autista era l'unica piccola barca che attraversava mari lontani fino alla loro isola sperduta. La barca arrivava una volta alla settimana portando libri illustrati, dolci, frutta, giocattoli che disseminava per loro. I ragazzi la accoglievano con grida di gioia, correndo sulla spiaggia. Fissavano con occhi brillanti gli oggetti che venivano scaricati, uno dopo l'altro. Questa volta che giocattoli sarebbero apparsi? Ci sarebbero stati anche dolci e cioccolatini? Il carico non era diminuito? No, tutto era a posto. Era addirittura più abbondante del solito. Dopo che il carico era stato rovesciato a terra, la barca faceva nuovamente ritorno al di là del mare. I bambini agitando le mani la salutavano con rammarico e quando la sua forma scompariva, probabilmente si guardavano l'un l'altro, sospirando: "Ci vorrà ancora una settimana ..." Senza dubbio, durante quei sette giorni avrebbero esaminato con calma i nuovi oggetti e ciascuno avrebbe raccolto quello che più gli andava a genio per ingrandire la propria collezione di tesori. L'autista poco per volta aveva finito per rendersi conto della loro attesa e aveva cominciato a suonare più volte il clacson prima di dare inizio all'operazione di scarico. A quel segnale, i volti dei bambini apparivano a tutte le finestre dell'edificio al di sopra della scarpata. Non li aveva mai contati ma erano parecchie decine. La casa sulla scarpata, per quanto vecchia, era piuttosto grande e probabilmente avrebbe potuto ospitare un numero di persone superiore al doppio. Ma si trattava di bambini ritardati, tenuti a pensione completa, e cinquanta ospiti costituivano certamente un grosso impegno. Anche gli insegnanti, come i bambini, abbassavano lo sguardo verso il camion dei rifiuti. Non erano volti sorridenti. L'autista aveva saputo dal portiere dell'ospizio che erano andati a protestare. L'uomo aveva pensato che, a parte gli insegnanti, forse non era il caso di venire a scaricare rifiuti così vicino all'istituto, ma non poteva farci niente. La grossa fossa di scarico ricavata dalla cavità in fondo alla scarpata si trovava entro il recinto della casa di cura e una volta alla settimana l'autista faceva il giro degli edifici, raccoglieva la spazzatura e veniva a scaricarla. Fortunatamente, per i ragazzini, tutto era fonte di felicità. All'autista piacevano i bambini. Agitava la mano verso i volti al di là delle finestre e metteva in azione la piattaforma di scarico del camion. L'immondizia accumulata in una settimana nella casa di cura, con un acuto rumore, precipitava a valanga nella fossa. In mezzo ai rifiuti luccicavano frammenti di vetro. Arance marcite rotolavano e cadevano. Si sentivano risuonare le grida di gioia dei ragazzi. BibliotecaGino Bianco Dopo tre mesi, l'autista era passato ad una ditta di trasporti più grande. In seguito aveva sentito dire che la clinica era stata dotata di uno splendido inceneritore, che l'istituto era stato chiuso e anche l'edificio era scomparso. Un collega di quel periodo lo aveva informato. A quel tempo, l'autista aveva circa venti anni. i-:, opo essermi separata da mio marito, per circa sei mesi l.iiil non ero stata in grado di controllare la quantità di whisky che bevevo. Mentre ancora pensavo di essere del tutto sobria e fra futili chiacchiere o inconsistenti ricordi del passato ero impegnata a discorrere con l'autista che a quell'epoca mi veniva spesso a trovare, i suoni cominciavano a indebolirsi alle mie orecchie, e gli oggetti davanti agli occhi si rimpicciolivano. Sentivo le palpebre pesanti ma non avevo sonno. Neppure stavo male. Solamente, il vuoto attorno a me si allargava. Se rimanevo assorta senza far nulla, ero come un palloncino sospeso nel cielo notturno. Allora tendevo in fretta le braccia verso l'autista, avvicinavo il suo viso al mio e lo baciavo come nelle scene d'amore di un film; non avevo neppure la forza di alzarmi, e cominciavo a spogliarmi seduta a terra. Avevo già steso il materasso, quando avevo messo a letto il bambino. Dopo essermi spogliata, scivolavo sul materasso; allora l'autista in fretta correva in bagno, spegneva la lampada, si spogliava a sua volta e veniva al mio fianco. Lo aspettavo impaziente e mi buttavo su di lui come una rana. Con forza premevo il mio corpo contro il suo, caldo e morbido. Mi piaceva quel momento. Era una sensazione che solo gli esseri umani possono assaporare. Quando, nuda, cercavo con tutto il mio corpo quello dell'altra persona, mi rendevo conto di essere anch'io un essere umano; il peso della sua testa, la linea della nuca, il petto ansimante, i peli del ventre, tutto era sicuramente parte di un essere umano e mi emozionavo all'idea che non vi fosse nulla al di là di questa umanità. Abbracciavo il corpo di un uomo, lo baciavo in ogni sua parte, cercavo conferma a quella sensazione di contatto. L'autista tuttavia non restava fermo a lungo. A quel punto, io allentavo la stretta delle braccia e cominciavo a muovermi docilmente seguendo i movimenti del suo corpo. Non mi preoccupavo quasi mai del bimbo che dormiva nella stanza accanto. Tenevo gli occhi aperti. Quando incontravo lo sguardo di lui, ogni volta, sorridevo e gli davo un bacio. Immancabilmente, dopo poco mi veniva sonno. Lasciavo perdere l'uomo, che ancora si stava muovendo sopra di me e cominciavo a respirare nel sonno. Quel respiro era l'unica cosa di me di cui fosse scontento. Perciò cercava di impedirmi di bere. Eppure, addormentarmi avvertendo la presenza di un corpo umano era per me la garanzia di un sonno tranquillo per l'intera nottata. Mi riempiva di una sensazione di riconoscenza; anche questa volta avrei potuto dormire affidandomi interamente alla notte. "Se mai ti viene in mente di telefonarmi o di metterti agironzolare nei pressi di casa, spero che sia questa sera". Questo avrei voluto trasmettere per telepatia al padre del bimbo. Dapprima non avevo parlato di lui all'autista; ma non erano ancora passati tre mesi, che il padre del bimbo aveva comin-
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