do si possa andare oltre e non lasciar cadere la domanda iniziale: è storia, questa? È evidente che l'ammissione che la storia è anche i desideri espressi e repressi, le utopie e le ucronie, le passioni e le fantasie degli uomini pone alcuni problemi. Per esempio, si rischia di "annullare ogni distinzione tra fiction e history, tra narrazioni fantastiche e narrazioni con pretese di verità", per usare le parole con cui Carlo Ginzburg nella postfazione a li ritorno di Martin Guerre di Natalie Zemon Davis metteva in guardia contro certi eccessi del "ritorno alla narrazione". Qui invece siamo in presenza di "storia e racconto", di una ricerca con "finalità storiche e narrative"; letterari sono alcuni dei modelli da Portelli citati (Conrad, Dos Passos, Faulkner. ..); ha obiettivi narrativo-espressivi la scelta di mantenere il dialetto nella trascrizione delle testimonianze. Indizi e segni di un lavoro che si colloca ai margini, lungo il confine che separa (o separava) storia e racconto. Forse allora la risposta alla domanda cruciale - è storia questa? - potrebbe consistere, per ora, nell'ammissione che questa è la storia una volta che venga raccontata; una volta, cioè, che la verità storica non sia separata dal racconto che se ne fa e se ne ha. Ma in realtà a questo punto, una volta chiariti gli obiettivi della ricerca, quell'interrogativo perde molta della sua importanza, e andrebbe riformulato in modo diverso: questo approccio e questo metodo di ricerca aumentano o diminuiscono le possibilità conoscitive della ricerca storica (specialmente di storia orale)? Mi sembra che il lavoro di Portelli non lasci dubbi in proposito: non solo fatti e processi storici sono riconosciuti con una ricchezza di particolari e di riferimenti probabilmente estranea ad altre fonti, ma assumono qui una plasticità che raramente testi storiografici ci restituiscono. Questa plasticità deriva da scelte anche tecniche che privilegiano la peculiarità narrativa delle testimonianze; ma mi sembra soprattutto legata alla quasi illimitata capacità di ascolto del ricercatore, dalla sua disponibilità di ricevere le storie. Qualcosa di più di una opzione tecnica, dunque; e qualcosa di immediatamente produttivo sul piano "storico", conoscitivo, investigativo del passato. Su temi come quello della rapida industrializzazione della città e delle enormi conseguenze sociali, politiche, culturali, o quello dell'opposizione al fascismo e della repressione democristiana dopo la Resistenza, le testimonianze colpiscono non solo per la loro quantità (elemento non seconBibliotecaGino Bianco dario e anzi decisivo, costitutivo, per il metodo scelto da Portelli) ma anche per l'intensità, e l'immediatezza, la preziosa capacità di illuminare la complessità e la contradditorietà degli avvenimenti, a partire da punti di vista e sensibilità diverse, ma anche da differenti stili e tecniche narrative. L'esito è quello di una sorta di collettiva introspezione della storia della città. Così un racconto come quello riportato all'inizio di Alfredo Filipponi, benché "falso", diventa prezioso non solo per evocare ma anche per sintetizzare gli avvenimenti descritti, lo scontro interno al Pci dopo la Liberazione; che se non si espresse in occasioni e scambi di battute uguali a quelli reinventati da Filipponi, non doveva allontanarsi molto nei contenuti dalle alternative anche schematiche che quel racconto poneva. Dal punto di vista della memoria - non solo della memoria individuale di Alfredo Filipponi, ma della memoria collettiva degli irriducibili e delusi partigiani comunisti, e dell'Italia dopo la Resistenza - il racconto è molto più "vero" di quanto non appaia. Lo spazio dedicato a questo che mi sembra l'aspetto più rilevante e scabroso del lavoro di Portelli consente appena di accennare ad altri motivi di notevole interesse. Come la scelta di frazionare le testimonianze registrate (fino alla dimensione del frammento) e di lavorare sul loro montaggio, sull'accostamento e il confronto con testimonianze complementari o dissimili, ma anche sul carattere evocativo che singole frasi hanno. Tecnica che amplifica la connotazione narrativa dell'intera ricerca, ma che d'altro canto rispetta anche - in modo per così dire "proporzionale" - l'ampiezza e la compiutezza delle testimonianze. Che infatti si fanno più ellittiche e tormentate via via che ci si avvicina al presente: fino a ridursi in frasi smozzicate e informi ("Perciò complessivamente esse' compagni significa sta' appresso a certi momenti, capito; a certe cose. E tu sempre appresso, sempre còrreglie dietro. Ieri, sentivi il Gr2, hanno arrestato Oreste: dice che stava a prepara' le bombe ... Comunque a Terni Oreste non sarà dimenticato"). La confusa approssimazione di questa testimonianza, e di altre analoghe concentrate nell'ultima parte del libro, esprime e sintetizza assai bene la disgregazione sociale connessa con la dissoluzione del centro dell'universo economico e mentale ternano: quello delle Acciaierie e della grande industria. E dunque anche qui, una scelta metodologica, apparentemente di pura tecnica di trascrizione, rivela invece grandi conseSCHEDE/BARENGHI guenze sul piano espressivo e conoscitivo. È, in conclusione, l'incrocio tra storia e racconto - aperto, poco "prudente", per niente preoccupato dell'ipoteca di grandi discussioni metodologiche e metastoriche -a mostrare in questo lavoro tutta la sua potenziale ricchezza: narrativa e conoscitiva. SAGGI MITOEREALTÀ DICAMPANA Mario Barenghi Allo sguardo dell'aspirante biografo, la vita di Dino Campana appare assediata da due zone d'ombra: la follia e le lacune documentarie. Queste ultime fanno sì che riesca praticamente impossibile ricostruire non solo aspetti importanti, ma addirittura - al di là di indicazioni assai vaghe - anni interi della vita del poeta: come il periodo del suo primo domestico vagabondare per la Toscana e l'Emilia fra il 1903e il 1907, certo meno spettacolare, ma probabilmente più importante nella sua formazione umana e spirituale. La follia, dal canto suo, ha il potere di avvolgere nel mistero anche le risultanze più certe, sì che dietro ogni azione o evento sembra potersi celare un sintomo nevrotico o un presagio di squilibrio mentale. E questo vale anche per i Canti orfici, il "libro" che a detta dello stesso Campana costituisce da un certo momento in poi la giustificazione della sua esistenza - e che di fatto è l'unica ragione per cui noi oggi abbiamo interesse ad occuparci di essa. Come scrivere dunque, come parlare della vita di Campana chiusi fra lo scoglio insormontabile della mancanza di dati e i gorghi vertiginosi di un sempre incombente delirio? La soluzione, o meglio la scappatoia, è stata trovata ben presto nel mito. Il "mito Campana": la leggenda del poeta folle, errabondo e inquieto, sospinto dall'accensione del genio oltre i confini della ragione, ovvero disponibile all'ispirazione in virtù della sua stessa dissennatezza. Genialità e pazzia, poesia e anormalità psichica finiscono in tal modo per assimilarsi e confondersi: l'abisso della demenza in cui Campana precipita potrà addirittura simboleggiare la speventosa sublimità dell' Assoluto poetico, al quale non ci si può accostare senza esserne sopraffatti. Tanta altezza ideale trova peraltro un perfetto contrappeso in una condizione terrena miserevole: al Campana mitico, martire della Poe89
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