Linea d'ombra - anno IV - n. 13 - febbraio 1986

88 SCHEDE/SINIBALDI nuove indipendenze africane, così familiare all'ambiente politico liberal-progressista cui la Gordimer appartiene. Un esperimento che però non ha avuto seguito: mai più questa scrittrice si è avventurata fuori dal Sudafrica, in zone di cui del resto riesce a dare un panorama solo dall'esterno, filtrandolo attraverso gli occhi di personaggi "espatriati", cioè di bianchi che hanno perduto il proprio paese, siano essi inglesi (come lo stesso Bray, o il protagonista di Un mondo di stranieri, Feltrinelli 1961), oppure sudafricani, come Rosa Burger che fugge in Francia (ne La figlia di Burger). La Gordimer ha fatto dunque sovente ncorso all'angolazione prospettica caratteristica dell'occhio straniero, come se ciò le fosse in un certo senso connaturale. Forse la scelta è dovuta alla sua peculiare cultura di sudafricana bianca che vive in un paese che sembra appartenerle solo a metà: infatti la metà nera le rimane estranea, e viene vista soltanto mediante gli spiragli offerti da transfughi del mondo nero, come Gideon in Occasione d'amore, tradotto da Feltrinelli nel 1984. È una situazione difficile e ambigua, irrisolta; Ospite d'onore denuncia in pieno questa non appartenenza, questa condizione di 'ospite' che il bianco ricopre in Africa, con tutte le responsabilità del caso, ma anche, come qui, con tutta la mancanza di responsabilità che è la condizione fondamentale di James Bray, privo di potere e di funzione sia pubblici sia privati. Infatti il compito che gli ha affidato Mweta non è che una copertura per tornare e osservare: Bray non è un protagonista che agisce, bensì un occhio che registra e osserva, impotente, impossibilitato a intervenire. Non mancano naturalmente in questo romanzo degli aspetti intensi, che sono reperibili soprattutto a livello di rapporto fra il bianco e l'Africa. Africa come natura e come società. Il bianco (Bray) ama profondamente gli odori e i sapori di questa terra, le sue forme; è legato ai suoi abitanti, che sono i suoi unici veri amici e che lo attirano irresistibilmente, proprio per quel rapporto particolare che stabilisce con essi: "Un bianco, in Africa, non riesce a vedersi altrimenti che in qualità di mentore. Si guarda allo specchio, e subito avverte il fascino fatale dell'immagine riflessa: né importa molto, adesso, se si tratti del funzionamento di Stato sotto il suo casco coloniale, o del liberale bianco che a suo tempo aveva voltato le spalle ai coloni della sua stirpe per recarsi a Lancaster House [dove si discuteva l'indipendenza] a fianco a fianco con gli africani". · BibliotecaGino Bianco I romanzi della Gordimer sono un faticoso, sofferto cammino che porta dal romanzo coloniale alla Kipling e alla Conrad verso un tipo di racconto diverso, postcoloniale, ma che non sa ancora verso quali lidi avviarsi: i momenti irrisolti di questo cammino - come sembra appunto essere Un ospite d'onore - hanno tuttavia una funzione chiarificatrice, una valenza di sofferta ricerca. Basti pensare che dopo la storia di Bray la Gordimer saprà dare la struggente, intensissima vicenda di Rosa Burger, con il mondo della dilaniata politica sudafricana e della sua disperante cultura filtrato attraverso la coscienza d'una giovane donna che cresce e alla fine decide d'accettare in pieno le proprie responsabilità, fondendo così in modo mirabile emozioni ed affetti, riflessioni ideologiche e scelte politiche. MEMORIA, IMMAGINARIO, DESIDERIO Marino Sinibaldi «Dopo finita la lotta partigiana - Terni è stato liberato unidici mesi prima delle altre province d'Italia - il povero compagno Togliatti fece l'intervento; convocò tutti i comandanti partigiani e tutti i dirigenti del partito provinciale e regionale di tutta l'Italia. Fece un intervento, disse che c'erano !'elezioni. "Voi ciavete l'ascendente, Omero" - il mio nome de battaglia del partito. Me l'aveva dato Gramsci. Invece quello de partigiano era Pasquale - "v'ho invitati per questo, voi ve dovete da' da fa' perchè dovemo vince' !'elezioni". Hanno parlato cinque sei e se trovavano d'accordo. lo ho alzata la mano: "Compagno Togliatti, io non mi trovo d'accordo". "Perchè Omega?" "Non mi trovo d'accordo perchè Lenin disse: quando passa il tordo bisogna tiràje. Se non si tira quand'e passa, non si sa quando si può tirare. Oggi passa il tordo; tutti i capi fascisti sono scappati via, non solo da Terni" - tutti quell'antri: "Anche da le parte nostre", dissero - "ed allora questo è il momento. Noi, le armi, senza che ce spiegamo, - glie dissi - stanno dove stanno". L'avevamo nascoste, eh. "È il momento, gli diamo giù e facciamo il socialismo". Lui mise la proposta mia e la proposta sua all'approvazione; la sua ebbe quattro voti più de la mia. E passò la sua». È storia, questa? Chi parla (Alfredo Filipponi, dirigente del Pci clandestino, comandante di una brigata partigiana, espulso dal partito nel 1949 e poi riammesso) non è ovviamente mai stato protagonista di un episodio del genere; il suo racconto è più "intriso di sogno e di desiderio" che di verità obiettiva. E allora, è storia questa? All'interrogativo radicale e magari rozzo, non ci si può sottrarre dopo la lettura della "microstoria" di Alessandro Portelli Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985 (Einaudi, 369 pp., 28.000 lire), in cui la testimonianza di Filipponi ha un ruolo chiave (Scrive Portelli: "Dall'intreccio di memoria, immaginario, desiderio rivelato in questo racconto, è nato il progetto di questo libro"). Il volume è un rilevante esempio di "storia orale": circa 180 testimonianze di varia lunghezza sulla storia di una città, colta in un periodo decisivo di passaggio da una dimensione rurale a quella della città-fabbrica dominata economicamente e culturalmente dalla grande industria - e oltre, dato che le ultime testimonianze sfiorano tematiche e tensioni postindustriali. Va subito detto che il lavoro di Portelli è talmente ricco di motivi e suggestioni da renderne assai difficile una trattazione e una critica complete. Qui dunque, tra i tanti stimoli che un testo del genere offre, se ne isoleranno alcuni; operazione sgradevole ma necessaria per sottolineare gli elementi di novità e originalità della ricerca. Il primo problema è quello, cui si accennava all'inizio, del rilievo dato a testimonianze in cui la ricostruzione della verità storica è fortemente contaminata da passioni e invenzioni personali, da proiezioni di desideri e fantasie, da wishful thinking. Su questo punto Portelli è assai chiaro. In un paragrafo della sua densa introduzione intitolato "Memoria e immaginario", afferma: "Non tutto quello che si racconta in questo libro è vero; ma tutto è stato veramente raccontato". E più oltre: "Quello che poteva accadere 1'8 settembre o il 14 luglio è, ai fini di questo lavoro, altrettanto importante di quello che è successo''. Ai fini cioè di un lavoro il cui obiettivo "non è tanto la ricostruzione di un secolo e mezzo di storia di una città ... quanto una ricerca sul rappore'o della gente con questa storia''. Da questo punto di vista non ci sarebbe effettivamente molto da aggiungere: omissioni e varianti, digressioni e versioni di comodo, iperboli ed errori nella struttura dei racconti sono segni evidenti e preziosi di modi diversi - non solo per "tendenziosità''. - di ripensare il passato; e forniscono materiale davvero enorme per uno studio di stili e modelli della narrazione orale. Ma io ere-

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