Linea d'ombra - anno IV - n. 13 - febbraio 1986

paese africano di recente costituzione, dunque, con tutti gli immensi problemi economici, politici e sociali che un tale stato di cose comporta. Al centro del libro non vi sono però gli africani, i quali fungono invece da sfondo e da supporto alla figura dell'eroe, appunto l'ospite d'onore, il maggiore inglese James Bray, il quale aveva vissuto a lungo nel paese durante l'epoca coloniale e ne era stato espulso dalle stesse autorità britanniche per l'appoggio dato al movimento di liberazione. Ora, dopo l'indipendenza, è salito al potere il leader nero Adamson Mweta, un vecchio amico di Bray che richiama immediatamente il maggiore per averlo accanto nell'ora del trionfo (i festeggiamenti per l'indipendenza) e del bisogno (la fase dicostruzione della nuova società). James Bray lascia la sua signorile casa di campagna nello Wiltshire e la moglie Olivia per ritornare nell'Africa tanto amata, dove subito ritrova con gioia l'acuto aroma degli alberi di frangipane e l'odore molle della decomposizione, a lui così familiari. Rientrare in Africa è per Bray come rinascere; è giungere in un luogo con un futuro, lasciandosi alle spalle una casa-sepolcro, una vita ormai senza più sorprese né aspettative. Adamson Mweta affida a Bray il compito di svolgere un'indagine sul sistema educativo esistente e sulle esigenze scolastiche del paese. Bray si accinge con alacrità al suo lavoro, e va a vivere nella regione del nord, in una cittadina di nome Gala da dove si sposta per effettuare le sue ispezioni oppure per recarsi alla capitale a contattare Mweta. Dinanzi ai suoi occhi sfila tutta l'Africa che caratterizza il paese della recente indipendenza: europei in fuga, altri europei in arrivo, neri in ascesa sociale, una nuova classe politica che si affaccia, speranze e aspettative e interessi che si intrecciano e si intersecano - il tutto filtrato attraverso interminabili conversazioni fra i mille personaggi che popolano il libro. Finirà che il paese, anziché venire rivoltato come un guanto, verrà adattato alla nuova mano che lo governa, quella abile e sicura di Mweta; l'antico sfruttamento dei lavoratori si perpetuerà, in nome dei problemi economici che il nuovo governo deve affrontare e delle amicizie che deve sapersi conservare se non vuole finire subito a picco. L'ala sinistra del partito della resistenza anticoloniale viene emarginata e sconfitta da Mweta, e il leader di essa, il dialettico Shinza cui Bray è così profondamente legato, deve andarsene all'estero. L'odore di marcio e di stanco che Bray aveva ritrovato in Africa, segno insieme di BibliotecaGino Bianco SCHEDE/VIVAN Copyrighl Grey Ville!, Visions 1985, e Agenzia Grazia Neri. corruzione e di rigenerazione, costituisce sin dall'inizio sinistro presagio di delusione e fallimento e, ancor piu, di morte; infatti il romanzo si conclude con la morte di Bray, che viene ucciso brutalmente ma casualmente da una banda di mercenari assoldati dai padroni delle miniere di ferro per domare l'insurrezione dei minatori appoggiata dal sindacato che controllano Shinza e i suoi. Questo lo schema per così dire politico di questo libro, che tuttavia politico lo è assai poco, e quasi lateralmente; al centro infatti della vicenda, più che la storia del paese africano e dei suoi eroi bianchi e neri, c'è la storia d'amore di Bray e Rebecca, due bianchi che nel nuovo "momento di futuro" si ritagliano un futuro tutto per sé. La morte di Bray, narrata come una scena cinematografica girata al rallentatore, spezzerà questa storia, rivelando come essa di fatto non avesse dimensione futura; e Rebecca si allontanerà fortunosamente dal paese in preda ai disordini per rifugiarsi in un'Europa che non aveva mai visto prima - essendo nata e cresciuta in Africa - e che le appare come una città sepolcrale, simile al mondo vittoriano intravisto dal narratore conradiano Marlow in Cuore di tenebra: una città silenziosa e bianca, foderata di tendaggi e in cui i rumori della realtà giungono attutiti e semispenti. Un libro insolito per Nadine Gordimer, come si è detto; ma si tenga presente che Ospite d'onore, benché la fascetta della Feltrinelli lo presenti come l'"atteso capolavoro della scrittrice sudafricana", in realtà è un vecchio libro che risale al 1970 ed è comparso molto prima de La figlia di Burger (del 1979, tradotto da Mondadori in quello stesso anno), de Il bacio del soldato (del 1980, tradotto dalla Tartaruga nel 1984), di Luglio (del 1981, tradotto da Rizzoli nel 1984). Inoltre - e questa è a mio avviso la cosa fondamentale - è un libro non ben riuscito, un libro lento e iungo, che tale appare oggi al lettore italiano, nonostante l'agile e disinvolta traduzione di Mariagiulia Prati. Un libro che trascina per pagine e pagine una serie di stanche e ripetitive conversazioni, che non risolve il rapporto strumentale, narrativo, fra l'aspetto politico e l'aspetto psicologico dell'indagine, e che lascia al lettore di oggi un senso di profonda insoddisfazione. Tale insoddisfazione è ancora più acuta in chi sappia che la stessa Gordimer ha al suo attivo ben altri libri che attendono di esser tradotti: come ad esempio il bellissimo The Late Bourgeois World (li fu mondo borghese, del 1966), oppure l'intricato ma affascinante Conservationist (li conservatore, del 1974). Perché dunque scegliere Un ospite d'onore, e perché mai presentarlo come si trattasse d'una novità? Certo Nadine Gordimer è molto più a suo agio quando tratta la realtà sudafricana di quanto lo sia al di fuori di essa. Probabilmente Ospite d'onore è stato per lei un esperimento, suggerito anche dal tema delle 87

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