Linea d'ombra - anno IV - n. 13 - febbraio 1986

66 STORIE/TRIFONOV che era accaduta, avevo 11 anni, e un pensiero vergognoso - insieme al terribile presentimento - balenò nella mia testa: ora potevo impossessarmi dei coltelli! Di sera, aprii piano piano la scrivania di mio padre, tirai fuori tutti e tre i coltelli, ci giocai un po' e poi li nascosi in fondo al cassetto del mio tavolino strapieno di matite e di album. Non ho potuto vantarmi con i compagni: ci siamo trasferiti in periferia, ho cambiato scuola, e chissà perché non avevo voglia di vantarmi con i compagni nuovi. Tutto sommato, mi disinteressai presto a questi coltelli. E piano piano scomparirono. Del coltello grande se ne appropriò il mio fratellastro, Andrej, quando lo chiamarono per il servizio militare. Andrej fu dato per disperso nel 1943, in qualche parte del nord, forse proprio sul fronte finlandese. Ne sono convinto, sicuramente su quello finlandese. Perché tutto è intrecciato con arte, basta trovare il bandolo che la matassa si sbroglia. Il coltello piccolo lo regalai in un momento di disperato amore ad una ragazzina. Ma non servì a niente. E il coltello medio lo portò via di casa mio cugino Goga, un orfano, vagabondo e fannullone, ma non privo di talento. Dipingeva e scriveva poesie. Un giorno Goga si presentò stracciato, sporco, forse veniva dalla stazione, o forse dalla prigione - era l'autunno del '45, lavoravo ancora in officina e lui viveva non si sa dove, e ciò mi incuriosiva molto, e c'era un'altra forza inspiegabile che mi costringeva ad amarlo - e per tutta la notte raccontò dei suoi vagabondaggi, bevve un tè fortissimo per l'abitudine al quale aveva il soprannome di Cifirist. lo, tutto preso, annotavo nel blocco le parole e le canzoni di quel mondo sconosciuto e terribile dal quale per un momento era riemerso. Speravo di utilizzare un giorno queste parole ma non le ho mai utilizzate. E la mattina dopo sparì col coltello. Ci siamo rincontrati molti anni più tardi. Poi c'erano le slitte finlandesi, le pottkuri. Si, le pottkuri! Ci si andava così: uno spinge la slitta appoggiandosi allo schienale del sedile e facendo forza col piede come sul monopattino, mentre l'altro se ne sta seduto sul seggiolino come un signore. Andavamo sulla strada di neve ben battuta. Io mi vergognavo di questa slitta ingombrante, da noi mai vista, e i ragazzini di Serebrjanyj Bor si fermavano e guardavano a bocca aperta. Questa slitta aveva qualcosa di servile. Uno dei due immancabilmente passava per servo. Alla fine della guerra trasportavamo sulle pottkuri le patate. E c'erano ancora gli sci di marca "Lampinen". Mio padre ne aveva portati tre paia. Quando dopo l'evacuazione tornammo in dacia, trovammo la porta sfondata, l'appartamento vuoto, i mobili scomparsi e nel corridoio, nell'angolo dove stavano di solito, neanche un paio di sci. Non c'era nulla nemmeno nella rimessa eccetto le pottkuri rotte: e proprio su queste trasportavamo le patate. Era la fine del 1942 e noi - mia nonna, mia sorella ed io - eravamo felici di essere tornati, felici che i tedeschi fossero stati respinti, che a Stalingrado un enorme esercito tedesco fosse stato circondato, e delle cose perdute non ci importava nulla. Qualche vicino cominciò a riportare le nostre cose, dicendo di averle prese per conservarle. Una donna riBibliotecaGino Bianco portò il samovar. Poi portarono lo scaffale con i cassetti, chissà da dove venne fuori una vecchia lampada con un guerriero romano arrugginito. Ma gli sci non comparivano. Circa due anni dopo entrai nella rimessa della nostra portiera Marusja per prendere la legna che mi aveva promesso e vidi dei sottili sci neri appoggiati alla parete, semicoperti da un foglio di compensato. Riconobbi subito il paio di "Lampinen" di mio padre. "Marusja" - dissi - "questi sci sono nostri". "Perché vostri?" - si stupì Marusja. "Liriconosco. Sono di mio padre. Li aveva portati dalla Finlandia. C'è anche il marchio finlandese. Vede, inciso qui 'Lampinen' ... Il viso di Marusja, ingiallito e magro, esprimeva uno stupore triste e offeso. E scuotendo la testa e stringendo le labbra mostrava di non credermi. "Ma come" - mi agitavo io - "vede qui, c'è scritto Lam-pi-nen. Ecco qui! Guardi qui!". "Io che ne so che c'è scritto" - borbottava Marusja - "Ci andava Paska. Li conservo proprio per questo. Altrimenti li avrei già venduti. Me li avevano chiesti". Paska, il figlio di Marusja, era stato dato per disperso. Era maggiore di me di due anni. Una volta avevamo fatto a botte al posteggio di barche a nolo. Raccolsi la legna che mi avevano prestato e me ne andai. Lei mi raggiunse: "Aspetta. Li vuoi prendere?". Io dissi: "Non li voglio". Le altre due paia di sci erano scomparse senza lasciar traccia. Tutto questo mi è venuto in mente mentre guardavo dalla finestra la Finlandia notturna, completamente diversa da quella nella quale avevo vissuto mezzo secolo prima. Per tutta la notte il "Centrum" color rosa rimase illuminato. La mattina dopo il cielo splendeva, la strada gelata scricchiolava, l'aereo volava basso e io vedevo un paese dal biancore accecante e dai laghi ricoperti di neve. Luccicava sotto l'ala dell'aereo come una semplice torta di zucchero appena tolta dal frigorifero. Le strade la tagliavano in pezzi irregolari. Nell'aereo faceva molto caldo e sembrava incredibile che fuori ci fossero trenta gradi sotto zero. A Helsinki faceva meno freddo, nell'aria si sentiva l'umidità. Mi chiesero: chi vuole vedere a Helsinki? Risposi: i vecchi. E non perché mi interessi la gerontologia, non per ragioni umanitarie e non perché qui era appena uscita la traduzione del romanzo Il vecchio. I vecchi mi interessano solo perché hanno dei ricordi. In una parola mi interessano i ricordi. Io vorrei trovare dei vecchi che ricordino gli avvenimenti del '17 e del '18, la breve rivoluzione finlandese, lo sbarco dei tedeschi, la morte delle sprovvedute guardie rosse, la disfatta, la ritirata e tutto ciò che a questo seguì. I miei amici avevano trovato dei vecchi di questo tipo. Hanno raccontato le poche cose che la loro memoria aveva conservato: le battaglie nei pressi dei piccoli villaggi, nei piccoli isolotti, nelle accoglienti stazioni ferroviarie dove arrivavano l'eco e i tuoni della tempesta russa. Anche qui avevano ucciso, perseguitato, imprigionato, sognato la rivoluzione mondiale, anche qui aveva ribollito l'odio e era regnata la paura, perché la morte, sapete, non ha dimensioni né confini, è dappertutto. I vecchi con i completi neri da festa, che sembravano presi in prestito, e le vecchiette con le labbra rinsecchite e le rughe di pergamena rac-

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