CIELOGRIGIO, ALBERIMAESTRIECAVALLOSAURO Jurij Trif onov I] ra tutto qui: il cielo grigio, gli alberi maestri e il cavallo. E la neve, naturalmente. Tanta neve. La neve era odorosa e giallastra. La neve e il cavallo erano tutt'uno, non potevano esistere l'una senza l'altro. Anche il cavallo era odoroso come la neve. Stava fermo e tranquillo e suscitava angoscia: perché in lui era racchiusa la felicità, sempre irraggiungibile. Era un sauro, forse, tendente al giallo, e rendeva la neve dello stesso colore. E ancora ricordo il cielo grigio e gli alberi maestri. Passeggiavo con la mamma nel porto. È tutto, nessun altro particolare, neanche il più piccolo. Ma anche far emergere soltanto questi piccoli dettagli mi è costato uno sforzo sovrumano: perché il cielo grigio e gli alberi maestri hanno 50 anni, e tanti ne hanno anche il sauro e la neve. Ad esser più precisi, cinquantadue. Come sono vecchi, il cavallo e la neve! Ero arrivato a Jyvaskyla dove si trovava la casa editrice che pubblicava i miei libri. Non ero arrivato, però, al momento giusto, e del resto il motivo era la festa del cosiddetto inverno di Jyvaskyla, e la casa editrice, invece, aveva un proprio festeggiamento: da ogni parte erano arrivati autori finlandesi, traduttori, commercianti di libri, e gli editori non avevano certo tempo per me. Benché avessero intenzione di pubblicare un altro mio libro, non avevano tempo per me. Avevano voglia di stare tra di loro, di parlare la loro lingua, di divertirsi, di ballare con altri editori, autori, traduttori e commercianti di libri, di saltare sulla neve per tutta la notte, e io sgattaiolai fuori dall'ampia sala del seminterrato dove di solito si celebrava la messa per i dipendenti della casa editrice e della tipografia. In questo edificio tutto era nuovo, comodo, lustrato e levigato. Sulle pareti erano appesi quadri lustrati e levigati, decorava l'ingresso un enorme ritratto del fondatore della casa editrice in costume iniziosecolo, dappertutto regnava un meraviglioso odore chimico. Fuori c'era un freddo terribile. Uno dei dirigenti della casa editrice uscì, a capo scoperto, nel gelo e, scuotendomi contento la mano, seguitava a borbottare in tre lingue: "Signor Trifonov, I wich you, buon nacht". Non vedeva l'ora di rientrare nel seminterrato. La via principale era deserta. Il gelo e l'ora tarda avevano svuotato la città, ma le insegne di fuoco brillavano, le vetrine splendevano, nel cielo nero si rifletteva il bagliore delle luci: tutto era come deve essere in una piccola capitale del mondo. Sopra i tetti delle case salivano diritte colonne di fumo. Dalla finestra dell'albergo vedevo il grande magazzino "Centrum" chiuso per la notte, che splendeva, in basso, con le sue luci rosa abbaglianti e inutili, e in lontananza nel cielo, oltre i riflessi rossastri, nell'oscurità, si stendeva qualcosa di immenso, sconfinato, nervoso e freddo. In questo paese cinquanta anni fa ho fatto le mie prime esperienze e ho cominciato a sentire e a scoprire la vita. Alla fine degli anni venti mio padre dirigeva qui la rappresentanza commerciale. E ho cominciato proprio qui, Dio mio, a pronunciare le prime parole e a fare i primi passi. Per quanto possa suonare banale, è così. E allora? Per quale ragione? Quale è il nesso? Eppure non è rimasto nulla eccetto il BibliotecaGino Bianco cielo grigio, gli alberi maestri e il sauro odoroso. A Helsingfors è nata mia sorella. E con questo? Non è mai stata legata a questa terra. Non conosciamo nemmeno una parola finlandese. Però è vero, mia madre diceva a volte "Albertsghatan ciugufem", ed è rimasto nella memoria come una specie di abracadabra. Ora mi hanno spiegato: era il nostro indirizzo a Helsingfors, via Albert, 25. Non era in finlandese, ma in svedese. La troverò questa casa. Ma prima devo visitare Jyvaskyla dove c'è la famosa festa invernale e dove sono arrivato da Lahti. Il conduttore gridò più volte il mio cognome nel corridoio, il treno sostava solo tre minuti: mi sono preparato in un lampo e sono saltato fuori facendo cadere i bagagli sul marciapiede inondato di sole ma ghiacciato per i 35° sotto zero, dove un ragazzo e una ragazza con simpatiche facce, rosse dal freddo, hanno afferrato i miei bagagli, raccolto il cappello che era rotolato lontano nel salto: e tutti insieme ci siamo messi a correre lungo il tunnel verso la macchina. Correre era più piacevole che cammiml're. Circa tre ore dopo, attraversata la Finlandia bianco-azzurra, come i colori della sua bandiera - una Finlandia pietrificata dal freddo di gennaio, con le colline bianche, le guglie delle chiese, la superficie scura e porosa del granito ai lati della strada, con le colonne di fumo che si innalzano nell'azzurro - arrivammo a Jyvaskyla. È una piccola città, molto dignitosa. Qui c'è di tutto: fabbriche, università, supermercati, automobili svedesi e giapponesi per le strade, le "Lada" e le "Moskvic", che chiamano "Elite", la libreria, dove ho acquistato bellissime cartelline a fogli doppi, trasparenti, per inserirvi le recensioni migliori e ammirarle. Per le brutte recensioni ho comprato un trinciacarte portatile: sminuzza la carta in piccolissime strisce. L'inverno di Jyvaskyla è fatto di discussioni, risate, conversazioni su ogni argomento, umorismo strano, birra, simpatia. Stavo alla finestra, guardavo il luccichio radioso e inutile del "Centrum" in piena notte e pensavo che non occorre preoccuparsi di cercare i fili di tutto questo intreccio: lasciamoli venir fuori all'improvviso - come il marciapiede ghiacciato di Lahti. Qualcuno gridò il mio cognome, riportandomi sulla terra, e ho cominciato a ricordare. ST,I io padre aveva portato dalla Finlandia tre autentici ~coltelli finnici: uno grande, l'altro medio, il terzo piccolo. Erano straordinariamente belli. Foderati di pelle nera, i manici di pietra rosso-scura, levigata. I coltelli erano dentro la scrivania di mio padre ed egli non permetteva che si toccassero. Diceva che è stupido giocare con i coltelli. Ed io invece ne avevo tanta voglia! Il solo contatto con la fredda pietra rosso-scura del manico suscitava in me un fremito per tutto il corpo. Avrei voluto vantarmi con i compagni ma non ardivo disubbidire. Mio padre era severo. Se diceva "non si può", non si poteva. Ma un mattino di giugno, un lunedì, seppi che mio padre era via. E un presentimento agghiacciante mi diceva: per sempre. Nessuno mi avrebbe più detto "non si può". Non comprendevo ancora la disgrazia
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