Linea d'ombra - anno IV - n. 13 - febbraio 1986

ho sempre più l'impressione che la Sinistra abbia bisogno di ritrovare e riformulare il proprio stile. Ancora una volta (ma forse per la prima volta dopo molto tempo) la tradizione critica e di opposizione, la letteratura di rivolta, di disubbidienza civile, di satira e di utopia deve essere rimessa a soqquadro e fatta rientrare in circolo. Gionalismo e sociologia, soprattutto in Italia, ne avrebbero un gran bisogno. La figura del Politologo, tutto intento a scrutare e a formalizzare concettualmente i comportamenti dei partiti all'interno di un Sistema Politico tanto più dominante quanto più spettrale, è stata la figura davvero estrema in cui si è disincarnato l'intellettuale di sinistra. Politologia ha voluto dire anzitutto, in questo ultimo decennio, incapacità di vedere la società, di accorgersi delle nuove relazioni che si stabilivano fra i diversi aspetti della nostra vita quotidiana e pubblica. Da molti anni, poi, lo Stile che si presenta come tale (dalla riflessione e dal linguaggio filosofico fino al modo di vestirsi) è uno stile "di destra": cioè sublimità non comunicativa, freddezza élitaria, culto delle gerarchie sociali, feticismo del Privilegio: in sostanza, kitsch e gergo pubblicitario che si sforza penosamente di inventare piccole aristocrazie inesistenti o impossibili. Gli intellettuali di sinistra, en masse, dai più candidi ai più furbi, sono stati letteralmente ipnotizzati da questo stile, e nessuno ha resistito alla tentazione di farsi passare per un gran signore, pur non essendolo e mancando in proposito di ogni requisito. D'altra parte, se la Sinistra non ha più uno stile ma deve importarlo dalla Destra, è perché non ha più radici. Non apprezza piu la propria tradizione: forse perché da molto tempo non la conosce e non la pratica direttamente, accontentandosi di innumerevoli mediazioni e intarsi che hanno fatto sparire il suo aspro e vivificante sapore. Queste mediazioni e sintesi globali della tradizione di sinistra, sia quelle ortodosse e partitiche che quelle eretiche elaborate da singoli intellettuali, hanno svolto la loro funzione fra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni Sessanta, ma sono oggi per lo più quasi inservibili (parlo anzitutto delle ramificazioni e derivazioni del pensiero di Lukàcs e di Sartre). Meglio risalire la corrente e far risuonare di nuovo, al di qua di troppe interpretazioni e storicizzazioni, le voci degli autori che hanno fornito la rappresentazione più vivace, fondata e libera della società moderna fin dalle sue origini: saggismo illuministico, romanzo realista e sociale, individualismo libertario e anarchico, e naturalmente utopisti e populisti e critici della civiltà di ogni risma ... Sappiamo così bene che la situazione attuale del mondo non è più quella di uno o due secoli fa, di venti o cinquanta anni fa, che possiamo misurare sulla base di quei vecchi modelli e di molte osservazioni nuove, fino a che punto tutto è diverso e fino a che punto quasi tutto è uguale. Ho sentito dire che Il libro da nascondere, da qualcuno, è stato accusato nientemeno che di patriottismo (forse perché vi si parla insistentemente dell'Italia come di un paese "colonizzato"). Forse è vero il contrario. In realtà, Edoarda Masi, in questo libro, ama troppo poco il proprio paese: rifiutando ogni complicità con i peggiori e più diffusi conformismi degli italiani, non riesce a mostrarci una sola figura umana socialmente significativa che avrebbe potuto volere fino in fondo una rivoluzione comunista, o che ne avrebbe meritato l'avvento. Non si può fare appello alla speranza se non in forma di immagini reali che contengano in sé la possibilità concreta della speranza. La mancanza di queste immagini fa sì che nelle pagine del libro domini ljn'atmosfera gelida, invernale, di disfacimento, in cui non c'è posto neppure per il rimpianto. Si può ancora credere che il rimpianto non abbia niente a che fare con il futuro? Ciò che di BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE buono "modernizzazione" e "colonizzazione" hanno distrutto, doti, attitudini, modi di vita individuali e di gruppoi, o semplici possibilità soffocate: il fatto che niente di tutto questo venga evocato nel libro, non rafforza, ma indebolisce la tensione e le argomentazioni politiche in favore di una trasformazione radicale. Sarà anche per questo, forse, che quando nell'ultima pagina ricompare all'improvviso la vecchia metafora della talpa rivoluzionaria, questa immagine non ci dà né sollievo né speranza. Ma finisce per accrescere ulteriormente quel senso di sforzo inutile e senza direzione, di tensione astratta e di inevitabile sconfitta che ogni retorica (comunista o meno, consapevole o involontaria) fatalmente comunica. Non una rivoluzione di sole talpe preferirei vedere: ma di scoiattoli, asini, maiali, passeri, gatti e caprette, orsi e farfalle, e che ognuno si esprimesse e lavorasse da par suo, non solo scavando cunicoli. ANCORASUL"LIBRODANASCONDERE" Paola Splendore Libro difficile, questo di Edoarda Masi, che sembra perseguire ostinatamente l'obiettivo di non piacere. Si prova disagio infatti fin dalle prime pagine per l'ossessiva razionalità che ne accompagna la scrittura, per la 'diversità' del soggetto narrante fastidiosamente più volte sottolineata, per il suo mettersi sempre dalla parte giusta - giusta beninteso non perché vincente, giusta moralmente - per il modo sbrigativo di ricorrere a termini quali 'plebe', i 'sessantottini', le 'casalinghe-serve' che denotano l'implicita superiorità di chi parla, quando non l'esplicito disprezzo (i 'pentiti', i 'maiali', ecc.). Eppure Il libro da nascondere è un libro importante, uno dei pochi apparsi negli ultimi anni sulla crisi dei nostri tempi, un libro dissidente e intensamente personale che con grande incisività riesce a rendere 'pubblico' il suo discorso privato. Il libro riflette nella struttura erratica, nell'alternanza delle voci e dei modi, la sensibilità e il travaglio di almeno due generazioni di individui nati prima e durante l'ultima guerra che hanno vissuto, con gradi diversi di consapevolezza e partecipazione, il dopoguerra, la fede nel comunismo, l'adesione al PCI, l'esperienza nei gruppi della sinistra extra-parlamentare, il maoismo, etc., e che poi tutto questo hanno dovuto mettere in discussione cercando di mantenere intatta la tensione morale e politica che ne era alla base. Questa è stata per molti una scelta di vita che li ha segnati profondamente, che a livello personale si è espressa in un rigore vissuto fino all'estremo limite della coerenza (vero soprattutto forse per quel settore emancipato della piccola borghesia che Masi definisce 'ceto pedagogico'), nell'intransigenza verso se stessi e verso gli altri, nella rinuncia, in definitiva, a "quel che comunemente vien chiamato 'vivere"' (p. 139). La politica entrava dappertutto, era un'esperienza totalizzante, l'ideologia si appropriava degli spazi più privati. Ma in realtà per molti, come percepisce l'autrice, era una rimozione da sé, "un guardare lontano e non vedere vicino", "un vero condito di falsità - una lontananza da me stessa, il dovere" (p. 139). Questo è stato il modo di far po-

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