DISCUSSIONE impedisce alle sue descrizioni di essere più esaurienti. Lo sforzo di chiarificazione autobiografica è così furioso da strozzare i contenuti che potrebbero emergere, invece di liberarli. In questa ostinazione astratta c'è tutta la forza e la debolezza del libro. Un libro, perciò, che "manca di stile": nel senso che non ha nessuna eleganza superflua, ma neppure abbastanza astuzia vitale e forza percettiva da fare spazio a possibili esperienze nuove, dietro e oltre le esperi!è!nzepensate e riflesse. Che cosa questo significhi lo si capisce ancora più chiaramente se si confronta questo libro di Edoarda Masi con quello precedente, scritto dopo un anno di soggiorno in Cina fra il 1976 e il 1977 (Per la Cina, Mondadori 1978). Il libro sulla Cina non era soltanto un libro piu bello, era anche un libro più libero, più intellettualmente e descrittivamente chiaro. In Cina, la capacità di osservazione diretta era come sovreccitata dalla presenza reale di oggetti, persone, eventi sui quali valeva la pena fermare prolungatamente la propria attenzione, perché su di essi avrebbe potuto formarsi unariflessione di ampio respiro. Inoltre, la profonda cultura di sinologa di Edoarda Masi le permetteva di avere sempre presente l'intreccio non facilmente districabile di cultura tradizionale e cultura moderna in Cina: con tutto ciò che di ambiguo, di indecifrabile, ma anche di potenzialmente vitale può esserci nei modi imprevidibili attraverso cui un popolo, con le sue classi, le sue caste, le sue abitudini e tradizioni, le sue caratteristiche storiche inconfondibili, tenta di aprirsi la strada verso una società meno irrazionale e meno ingiusta. Proprio questo spessore storico e antropologico, sempre presente alle spalle delle considerazioni politiche che Edoarda Masi svolgeva sulla Cina, manca nel libro autobiografico sull'Italia di questi anni. In Italia Edoarda Masi si sente in esilio: come può sentirsi senza dubbio in esilio chiunque respiri nel proprio paese una soffocante aria di famiglia, inquinata dall'eccesso di vicinanza, dal sovraffollamento di simili e di consanguinei e di parenti acquisiti con i quali si scopre con raccapriccio di non avere quasi niente in comune. A questi vicini, simili, connazionali, Edoarda Masi trova e affibbia dei nomi particolari e stranianti: li chiama "plebe burocratica", "ceto pedagogico", "pubblicitari" del sistema, ecc. Definizioni a volte felicemente sintetiche, efficaci (come quelle riportate): altre volte quasi ciecamente reattive o moralistiche (è il caso di etichette come "sessantottini" o "signore impellicciate", che sembrano comodamente concrete e sono invece astratte, troppo indefinite e vaghe). Dietro a queste categorie ed etichette ci sono o dovrebbero esserci analisi, diagnosi sociali e morali: ma ciò che al di là di esse si impone è soprattutto il gelo della comunicazione impossibile o delusa, la distanza voluta e irrimediabile, lo stridore e la goffaggine commovente di certi dialoghi tentati, troppo presto interrotti, impossibili (con Enzo, per esempio, personaggio allusivamente importante, di cui però viene detto troppo poco - o con qualche degente incontrata in ospedale). Senza che nessuno possa decidere di chi è la colpa, di chi è il difetto o l'errore, se dello sconsolato rappresentante di un "ceto pedagogico" ormai privo di scopi sociali, o dei rappresentanti ambigui, contraddittori, serpentini di quella nuova "plebe burocratica" dentro cui è andato a rinchiudersi e a nascondersi il proletariato. Ognuno semBibliotecaGino Bianco bra avere torti e ragioni: ma il lettore non può notare che Edoarda Masi sottovaluta le ragioni, buone o cattive, per le quali il grande popolo dei subalterni e degli espropriati si è adattato, in mancanza di altro, a prendersi quello che gli si offre. Su colpe ed errori del passato Edoarda Masi non è reticente. Ma drammatizzando i contrasti tende anche a considerarli in termini di alternativa quando non lo sono, e quando si tratta di ipotesi e di esperienze concomitanti, sulle quali non è possibile prendere affrettatamente delle decisioni in linea di principio. La tensione ideologica della Masi presuppone una teoria e una strategia politica che non ci sono. E i sintomi empirici che qua e là vengono presi in esame sono troppo scarsi e limitati, o insufficientemente descritti, per risultare convincenti. Edaorda Masi si rende ben conto dei pericoli della sua "lucidità": al punto da definire come "mentale" e incorporea tutta una vasta esperienza della sinistra recente, dagli anni Sessanta in poi. La costruzione di questo libro, però, non è tale da offrire un antidoto contro quei pericoli. A forza di straniamento e di giudizi etico-politici (con qualche cofusione dell'etico col politico), gli stessi frammenti di società e di storia italiana che sostengono il discorso, diventano opachi, sfocati. Credo che questo difetto di fondo sia dovuto ad una forma di politicismo intellettuale: a un'attitudine riflessiva, cioè che tende alla sintesi e alla formulazione di giudizi politici anche quando quelle sintesi e quei giudizi non sono né possibili, né utili, né politicamente e moralmente necessari. È questa, tra l'altro, la ragione per la quale le migliori doti e qualità di Edoarda Masi come intellettuale e come scrittrice vengono in parte vanificate dalla ipertensione volontaristica della coscienza e dalla cattiva mescolanza di ideologia e autobiografia. Camminare verso una mèta positiva è importante. Ma se non si riesce a respirare perché l'aria stessa ci sembra spregevole, allora anche camminare diventa impossibile. E vero d'altra parte che rifiutarsi di respirare può essere considerata scelta più rigorosa e "realistica": in effetti l'aria che siano costretti a respirare, sia in senso proprio che metaforico, meriterebbe di essere sputata fuori, e non ingoiata. Ma quest'ultima scelta è così estrema da non poter essere presa politicamente in considerazione. La politica, tra l'altro, non è mai all'altezza delle scelte morali e intellettuali più rigorose, più eroiche. Il meglio che può fare la politica è semmai ispirarsi saltuariamente ad esse. Ricordate l'apologo brechtiano? Un serio e appassionato filosofo si reca dal famigerato signor Keuner, pensatore spietatamente realistico e paradossale, per esporgli il suo pensiero e chiedere una valutazione in proposito. Ma il signor Keuner, che ascolta distrattamente le parole del filosofo, osserva con attenzione il suo modo innaturale e scomodo di stare seduto. Come?, esclama spazientito il filosofo, io sono qui per sapere se quello che penso è giusto, e lei si occupa del mio modo di sedermi? Certo, conclude il signor Keuner: come si può raggiungere con il pensiero qualcosa di giusto e di vero, se neppure dalla sedia in cui si sta seduti si è in grado di ottenere il meglio? Come maestro di saggezza e di coraggio intellettuale Brecht non mi pare molto attendibile. Ma come estremista del disincanto e come realista fid oltranza è quasi sempre insuperabile. Moralmente è forse deleterio ma politicamente è senza dubbio utile. Brecht a parte, quello che rimprovererei al libro di Edoarda Masi non è di essere poco politico, ma viceversa di non essere abbastanza impolitico da poter diventare politicamente chiarificatore. Oltre ad avere bisogno di filosofie economiche e sociali,
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==