DISCUSSIONE sonanti per le orecchie abituate al corretto ragionare.) D'altra parte, quella di Giudici non era un'argomentazione articolata ma un'allusione ellittica su un soggetto che si presta fortemente all'equivoco: per essere intesa nelle sue intenzioni presupponeva il consenso a una visione generale delle cose, a monte del tema trattato. La distanza iniziale, e preliminare a ogni discorso, fra Giudici e i suoi detrattori sta nell'attenzione da lui rivolta ai punti di vista ed ai sentimenti della gente comune (quella che forma il cosiddetto popolo) e al loro evolversi e mutare, opposta al peso esclusivo diversamente attribuito alle razionalizzazioni delle élites dirigenti (o delle "avanguardie", perfino operaie) nel farsi della storia. (Non so se questa sia l'interpretazione corretta del pensiero di Giudici, né se lo sarà quanto sto per dire; se non lo è, gliene chiedo scusa, ringraziandolo però di averci dato l'occasione di sollevare alcune questioni nodali e sepolte). I più democratici fra quanti hanno attaccato Giudici, quelli che hanno speso la vita per la causa degli oppressi, come Vittorio Foa, non si sono resi conto, credo, di questa distanza iniziale; mentre immaginavano di combattere velleità di rivalutazione del fascismo o della sciagurata avventura in Etiopia, facevano loro malgrado causa comune con quanti esprimono e pretendono imporre una visione a un tempo aristocratica e moralistica nell'interpretazione della storia. Secondo la quale il popolo italiano nella sua maggioranza è colpevole (quanto meno per errore) di fascismo, ed è riscattato da questa colpa solo grazie all'eroismo di minoranze illuminate che fin da principio videro giusto, non caddero nella colpa o nell'errore, e attraverso lotte e sacrifici riuscirono infine ad avere la meglio sulla dittatura e ristabilirono la democrazia. Il "ventennio" appare in quest'ottica come l'avvento della follia, del male assoluto da rimuovere e sotterrare, per riprendere il cammino là dove era stato interrotto. La Resistenza allora è soltanto un seguito dell'antifascismo, una sua estensione a un maggior numero di persone, liberate dalle precedenti colpe e finalmente cooptate fra i giusti. La vittoria dell'antifascismo ha come risultato il ritorno al prefascismo. Questa pretesa di cancellare un periodo storico appare in forma compiuta e coerente nei conservatori, fra i quali anche coloro che, attenti ai propri interessi di classe più che a tutelare la democrazia, di fronte al pericolo del ''bolscevismo" all'inizio accettarono o addirittura favorirono l'ascesa dei fascisti come il minor male. In costoro la pretesa di negare realtà storica al fascismo (il puro male è storicamente immotivato) si accompagna all'intento di negare realtà al complesso di cause e condizioni dalle quali esso fu determinato, di ripararsi dietro un'ideologia moralistica per non guardarsi allo specchio; e anche per non riconoscere che potenze cosiddette democratiche mettono in atto nel mondo oggi nefandezze tali da far impallidire quelle perpetrate in Italia prima dell'alleanza con Hitler e delle guerre d'Etiopia e di Spagna. Ma, se pur frammentaria e incompiuta, la stessa pretesa emerge in larga parte della cultura dell'emigrazione (interna e esterna) dell'ultimo dopoguerra. La sfera include tendenze politiche e rappresentanze di interessi socioeconomici anche distanti fra loro, con motivazioni quindi solo in parte comuni, a volte incoerenti con le ideologie peraltro professate, e almeno parzialmente smentite dalle politiche messe in atto. BibliotecaGino Bianco La cultura dell'emigrazione reca un'impronta di origine borghese. Fascisti e antifascisti vi si configurano come due avverse fazioni della borghesia: lo scontro nasce dalle opinioni divergenti ed è motivato da una diversa impostazione etica o epistemologica di sezioni dello stesso soggetto sociale anziché da interessi socioeconomici opposti di differenti soggetti. La sua veste ideologica è la lotta del giusto contro l'errore, del vero contro il falso, del bene contro il male. (Da parte fascista l'interpretazione era la stessa, con inversione speculare delle parti - almeno quella fornita alla gente e nelle scuole, in buona o in mala fede.) Le due sezioni dello stesso soggetto sociale avevano un'ascendenza comune, l'impegno della borghesia ottocentesca a fondare una nazione italiana. Ma il patriottismo risorgimentale è in crisi già alla vigilia della prima guerra mondiale. I principi di libertà ereditati dalla rivoluzione francese, fondamento dell'indipendenza delle nazioni, nel corso del secolo si erano tradotti fra i "cittadini" nella istituzionalizzazione del dominio di classe e, fra le nazioni, nella lotta accanita per la sopraffazione reciproca. Etnocentrismo e colonialismo completavano il passaggio dall'era delle nazioni a quella degli imperialismi. La borghesia italiana dopo la prima guerra mondiale fu in qualche modo consapevole della evoluzione della borghesia internazionale nel suo complesso; ma si ritrovò sfasata, troppo debole e alla guida di un paese troppo povero per sostenere il confronto. L'idea di una "arretratezza" della classe dirigente (proiettata ideologicamente sull'intero paese) già si era andata formando alla fine del secolo e si rafforzò dopo la guerra. La conseguente necessità di una modernizzazione accelerata assunse caratteri esasperati nei fascisti: la pretesa anacronistica di una classe dirigente debole di entrare in competizione con le sue omologhe più forti la costrinse a forzature violente nel controllo delle classi subalterne e alla soppressione del regime democratico, e fino alla ricerca ritardataria di colonie nella veste caricaturale dell"imperialismo straccione'. Dell'assurdità di questa politica, e della rovina a cui avrebbe portato, si rese conto la sezione più illuminata - antifascista - della borghesia italiana. E tuttavia senza saper proporre soluzioni alternative, che garantissero la propria conservazione al potere, e anzi il proprio rafforzamento. Lo scontro catastrofico fra gli imperialismi ancora rivestiti dell'abito obsoleto di nazioni portò con la seconda guerra mondiale alla liquidazione definitiva di queste ultime come centri di potere indipendente. Ne fece mere entità regionali, raggruppate entro i confini di quelli che sempre più chiaramente sono emersi come due grandi imperi, estesi virtualmente a coprire l'intera mappa terrestre. Ma le grandi correnti di trasformazione non si muovono in modo lineare e uniforme, controcorrenti possono arrivare a prevalere, momenti e fasi non contemporanei e livelli disparati di coscienza si combinano in una contemporaneità difforme, non omogenea. Le alleanze che si creano fra ceti sociali e raggruppamenti politici, d'altra parte, sono aree di intersezione più o meno vaste; ma altre ne esistono, più o meno visibili secondo il mutare del tempo, dove si intersecano interessi o visioni del mondo di ciascuno degli alleati con quelli di frammenti o sfere del fronte avverso. Anacronismi si rivelano all'interno dei ceti dirigenti. Velleità di indipendenza, a volte, come echi di passate glorie pur entro una politica in direzione opposta: la "Europa delle patrie'' di De Gaulle, con i residui paradossali nella Francia attuale; o richiami, in Italia per qualche tempo, a una tradizione cattolica (soffocati oggi nell'identificazione vaticana col peggio dell'impero occidentale). Mentre la nostra classe dirigente antifascista continua ad avere in comune
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