Linea d'ombra - anno IV - n. 13 - febbraio 1986

l'instaurazione della libertà e la fondazione di istituzioni durature: e a coloro che operavano in questa direzione nulla fu permesso che trasgredisse il diritto civile. La rivoluzione francese fin dall'inizio deviò da un tale orientamento, spinta dall'urgenza delle sofferenze del popolo; fu determinata da un'esigenza di liberazione non dalla tirannide ma dalla necessità ... " (R., 98). Quando i poveri "comparvero sulla scena politica, con loro comparve la necessità e il risultato fu che il potere dell'antico regime si trovò impotente e la nuova repubblica nacque morta: la libertà dovette arrendersi alla necessità, all'urgenza del processo vitale in se stesso" (R., 61). E anche la "buona" rivoluzione americana perse i suoi caratteri originali quando le masse degli immigrati e dei neri con le loro urgenze materiali si affacciarono sulla scena. Da un punto di vista storico questa radicale contrapposizione di ambito politico e di ambito sociale diventa piuttosto stravagante quando viene applicata a consigli di operai e contadini per i quali libertà politiche e autodeterminazione economica erano aspirazioni complementari e sovrapposte. Non è un pregiudizio marxista a spingere Hobsbawm, in una puntuale recensione al saggio sulla rivoluzione, ad affermare che "l'insinuazione che richieste come il 'controllo operaio' siano in un certo senso una deviazione dalla linea di evoluzione spontanea dei consigli e di altri organismi simili non è neppure da prendere in considerazione. 'La miniera ai minatori', 'La fabbrica agli operai' - in altre parole la richiesta di una produzione di tipo cooperativo democratico anziché capitalistico - risale alle prime fasi del movimento operaio. Da allora è rimasto un elemento importante nel pensiero popolare spontaneo, un fatto che ce lo fa considerare non diverso dall'utopia. Nella storia della democrazia di base la cooperazione nelle unità comuni e la sua apoteosi, la 'comunità cooperativa' (che fu la più antica definizione del socialismo tra i lavoratori) svolge un ruolo cruciale" (/ rivoluzionari, Einaudi, 1975, pp. 250-51). Rimane vero il fatto su cui insiste la Arendt che i partiti rivoluzionari, dai giacobini di Robespierre ai bolscevichi di Lenin, di fronte alle aspirazioni delle associazioni popolari all'autogoverno le usarono prima strumentalmente e le repressero poi con la forza quando si opposero al dispotismo di partito. Ma gli storici più sottili dei movimenti popolari hanno fatto una salutare pulizia del pregiudizio secondo il quale "i poveri" si muovono soltanto per motivi biologici, elementari, economici (tradeunionistici avrebbe detto Lenin, che la Arendt combatte pur condividendone, in fin dei conti, la rigida separazione tra economia e politica e l'idea che solo le élites sono capaci di autentico agire politico). E.P. Thompson ha illustrato già per i tempi della primarivoluzione industriale la complessità di tradizioni religiose, culturali, politiche che si intrecciano alle motivazioni economiche e convergono nella rivendicazione della "libertà". Su un piano più generale di teoria politica non si può non essere d'accordo con Jtirgen Habermas quando fa notare "la strana prospettiva adottata dalla Arendt: uno_ stato che viene sollevato dal compito amministrativo di trattare i problemi sociali; una politica purificata dalle questioni socioeconomiche; un'istituzionalizzazione della libertà pubblica indipendente dall'organizzazione della ricchezza pubblica; una democrazia radicale che inibisce la sua efficacia liberatrice proprio sulla soglia in cui cessa l'oppressione politica e comincia la repressione sociale: questo cammino è inimmaginabile per qualsiasi società moderna'' (La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt, Comunità, nov. 1981, n. 66). Tutto ciò non significa che l'energica sottolineatura arendtiana della specificità della dimensione politica sia inutile, soprattutto per chi proviene da una tradizione culturale BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE di sinistra in cui è stato senso comune pensare che il "contenuto" della liberazione sociale fosse l'essenziale e le "forme" della libertà e della democrazia fossero tutto sommato qualcosa di derivato e di garantito automaticamente dall'esistenza stessa delle lotte sociali. Contro la liquidazione marxistica delle "libertà borghesi" la Arendt ha perfettamente ragione di ricordare che il punto di arrivo è alla fine "il socialismo di Stato, cioè l'espropriazione totale" (PM., 264). Ma il problema nasce nel punto in cui la Arendt lo abbandona ritagliando con clarté filosofica mondi fenomenologici di vita separati e contrapposti (quello della libertà politica e quello degli interessi materiali) laddove la questione è piuttosto quella dell'interazione storica tra spinte emancipative sociali e istituti politici e giuridici. Forse libertà e democrazia non sono riducibili allo spazio puramente politico come ritiene la Arendt, né a quello puramente sociale (come spesso ha pensato la tradizione socialista e comunista) ma prendono corpo in uno spazio a più dimensioni in cui si disegnano processi storicamente complessi per la cui comprensione l'apriorismo filosofico può essere anche utile come preliminare chiarificazione mentale ma non può sostituire l'analisi concreta delle forze storicamente in gioco. Del resto anche H. Arendt ne era metodologicamente consapevole quando, in uno scambio di opinioni con Hans Magnus Enzensberger, scriveva: "C'è una radicalità apparente che non annulla proprio tutto, ma sotto un qualsiasi denominatore comune somma per somiglianza molti elementi particolari, tanto che quello che avviene concretamente viene considerato come innocuo, caso tra i casi ... Questo lo facciamo a volte tutti, trascinati, come mi sembra, non dalla 'corrente della storia' e dalla giusta preoccupazione per il futuro, ma dal corso delle nostre associazioni. Il pericolo sta nel mestiere. Ci si può opporre rinnovando sempre il tentativo di attenersi al concreto e di non annullare le differenze a favore di costruzioni" (Merkur, 1965, cit. in FS., 43). POPOLO,NAZIONE, IMPERO. CONTRIBUTO AUNDIBATTITO. Edoarda Masi Contro alcune considerazioni piuttosto innocue di un uomo di cultura, il poeta Giovanni Giudici, che parlava di politica come un "uomo della strada", si è scatenata nell'ottobre e novembre scorsi in importanti organi di stampa una serie di attacchi indignati o sfottenti, singolarmente unanimi e apparentemente sproporzionati all'oggetto. L'episodio faceva seguito al piccolo terremoto provocato dal caso "Achille Lauro" -Sigonella-Fiumicino, e il torto (o forse il merito involontario) di Giudici è stato di inserire in acque già torbide un nuovo motivo di turbamento, sollevando ingenuamente la cortina sul ventennio fascista non in un luogo privilegiato di studi accademici ma in un giornale destinato al grande pubblico, e violando il tabù delle semplificazioni prefabbricate. (Quelle che provocano nelle persone semplici la schizofrenia fra convinzioni da ammaestramento ricevuto ed esperienze vissute, e di conseguenza i giudizi dis-

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