DISCUSSIONE dalità dell'esistenza. Gerarchia ascendente, che segni il progressivo distacco, l'emanciparsi, dalle condizioni animali di mera soggezione alla natura" (PM., 127). Le fonti della rivendicazione arendtiana dell'autonomia della sfera politica sono evidenti, ma senza adesione completa a nessuna di esse. La tradizione liberale innanzi tutto, con la sua idea centrale degli individui che escono dallo spazio naturale per fondare la dimensione politica attraverso un patto o contratto che accresca la libertà degli individui subordinandoli unicamente alla legge. Ma del liberalismo rifiuta la soggezione della "libertà pubblica o politica" alla difesa degli interessi privati esistenti nella società civile, non tanto perché la Arendt sia contro la proprietà privata, che nella forma di una generale diffusione che elimini gli estremi della miseria e del lusso (Rousseau!) le pare anzi il prerequisito della libertà dal bisogno e della dedizione disinteressata alla politica, quanto piuttosto perché la concezione liberale della libertà finisce in un concetto negativo: "libertà da" e non positivo "libertà di". La libertà "non sta più nella sfera pubblica, ma nella vita privata dei cittadini e così deve essere difesa contro il pubblico e il suo potere. La libertà e il potere si sono separati: è incominciata la fatale equazione potere= violenza, politica= governo, governo = male necessario (R., 151). Era stato il liberale Benjamin Constant a contrapporre la "libertà da" come difesa degli interessi privati dagli abusi del potere, la "libertà dei moderni", alla "libertà di", la libertà degli antichi che presupponeva la partecipazione politica di tutti i liberi alla gestione della polis. H. Arendt, in linea con un'illustre tradizione del pensiero classico tedesco, rivaluta quella che Pier Paolo Portinaro in un bel saggio (Comunità, nov. 1981) ha chiamato "l'utopia della polis". La Arendt rievoca continuamente il libero dibattito tra le opinioni che sostanziano la democrazia greca, per la quale l'uomo è insieme z6on politik6n e z6on l6gon écon, animale che si costituisce come uomo nella comunicazione razionale del dibattito politico. "Essere politici, vivere nella polis, voleva dire che tutto si decideva con le parole e la persuasione e non con la forza e la violenza. Nella concezione greca, costringere la gente con la violenza, comandare piuttosto che persuadere, erano modi di trattare prepolitici caratteristici della vita fuori della polis, di quella domestica e familiare, dove il capofamiglia dettava legge con incontestato potere dispotico, o di quella degli imperi barbari dell'Asia, in cui il dispotismo era spesso paragonato ali' organizzazione domestica" (VA., 32-33). Il modello della polis non può essere storicamente ripetuto, ma in certo senso è l'ideale regolativo di ogni fondazione autentica dello spazio politico. Per es. i Padri Fondatori della rivoluzione americana ritrovano qualcosa della dimensione politica originaria quando parlano di "felicità pubblica" intesa come "piacere nel discutere, nel deliberare, nel prendere decisioni" (R., 128-29). Questa "felicità pubblica" è possibile solo se i cittadini, come nella polis antica, sono direttamente partecipi delle decisioni comuni. Il limite della rivoluzione americana, che pure per H. Arendt è la sola rivoluzione riuscita della storia, sta nel fatto che fu incapace di "incorporare [come base del nuovo stato] le townships e le assemblee dei cittadini, fonti originarie di ogni attività politica del paese" (R., 276). Incontriamo qui la terza fonte del pensiero politico arendtiano: la democrazia consiliare, intesa esclusivamente BibliotecaGino Bianco sotto il profilo politico, come esigenza di partecipazione diretta alle decisioni politiche attraverso il convincimento reciproco in un gruppo orizzontale di pari, terreno naturale di emergenza non autoritaria di élites politiche. Verso la fine della vita Jefferson aveva cominciato a pensare che il principio del governo repubblicano dovesse esigere "la divisione del paese in circoscrizioni, ossia la creazione di piccole repubbliche attraverso le quali ogni uomo nello stato potesse divenire un membro attivo del governo comune" (R., 293). "Tanto il progetto di Jefferson che le sociétés révolutionnaires francesi anticipavano con una precisione che ha veramente del soprannaturale quei consigli, i soviet e i Rate, che dovevano fare la loro comparsa in ogni rivoluzione autentica per tutto il diciannovesimo e il ventesimo secolo" (R., 288). Due punti da mettere in rilievo: in primo luogo per la Arendt "i consigli sono sempre stati innanzi tutto politici, poiché in essi le rivendicazioni sociali ed economiche hanno sempre avuto un ruolo del tutto secondario" (R., 318); in secondo luogo i consigli sono sempre in conflitto con la spoliticizzazione o la politicizzazione strumentale e subalterna di cui hanno bisogno i partiti. Questi ultimi "non possono essere considerati organi popolari, ma sono al contrario efficacissimi strumenti per ridurre e controllare il potere dei cittadini"; nelle moderne democrazie di massa il governo "è democratico in quanto i suoi scopi principali sono il benessere popolare e la felicità privata; ma può essere chiamato oligarchico nel senso che la felicità pubblica e la libertà pubblica diventano ancora una volta privilegio di pochi" (R.,312). Come si vede, motivi fortemente diversi convivono nel pensiero della Arendt, che riesce a tenere insieme un'ispirazione fondamentalmente liberale, un modello utopico di potere come comunicazione intersoggettiva priva degli aspetti di forza e di violenza evidenziati dalla corrente realistica del pensiero politico, l'istanza consiliare della democrazia diretta. Forse proprio questa combinazione un po' eclettica di elementi può in qualche modo incontrarsi oggi con le spinte politiche contraddittorie di una sinistra alla ricerca di una nuova identità. C'è però un filo profondamente unitario che percorre un patrimonio di riferimenti per altri versi eterogenei e ne fa un insieme teoretico relativamente compatto. È la già accennata "purificazione" dell'agire politico, come ambito della libertà e dell'autodeterminazione, da ogni motivo eteronomo proveniente dalla sfera economica, intesa come mondo della necessità materiale, dei bisogni, del lavoro. Qui la formazione in senso lato idealistica della Arendt si fa sentire pesantemente e in particolar modo la sua ascendenza kantiana: la sua sfera politica assomiglia singolarmente al regno etico dei fini e dell'autonomia morale delineato da Kant in contrapposizione alla razionalità utilitaristica e strumentale; anche se l'ispirazione kantiana è temperata dalla considerazione edonistica della politica come godimento della "felicità pubblica". Comunque sia, l'allieva di Heidegger e Bultmann a Marburgo, di Jaspers a Heidelberg e di Husserl a Friburgo, è radicalmente antimaterialista. Se può unificare esperienze storiche tanto diverse e trovare una continuità tra la polis greca, il primo liberalismo, la rivoluzione americana e la democrazia consiliare, ciò avviene sulla base della riduzione al comune denominatore della politica come institutio libertatis, contro l'intrusione dei rozzi bisogni e degli interessi materiali che porta fatalmente alla perdita della libertà. Uno dei motivi conduttori del saggio sulla rivoluzione è la contrapposizione tra una "buona" rivoluzione americana di ispirazione politica e una "cattiva" rivoluzione francese di ispirazione sociale: "larivoluzione americana rimase fermamente orientata verso
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==