La Arendt non sopporta neppure la confusione tra potere e scienza, giustificata solo dalla precedente politicizzazione dell'università da parte del potere costituito con le varie committenze da parte del Pentagono, della Cia ecc.: "potere e verità, entrambi perfettamente giustificati nel proprio ambito, sono fenomeni sostanzialmente distinti e la loro ricerca sfocia in modi di vita esistenzialmente diversi" (PM., 241). Qui la Arendt finisce per respingere un punto di fondo della rivolta studentesca e cioè l'idea che non solo nelle scandalose strumentalizzazioni del potere politico ma già nella "normale" organizzazione del sapere e nelle sue articolazioni istituzionali siano contenuti compromessi decisivi con la struttura di dominio esistente. Respinge infine la giustificazione della violenza diffusa in alcuni settori del movimento. Alla critica della connessione tra violenza e politica è dedicato il terzo saggio della raccolta (uscito in inglese nel 1970 era già stato pubblicato nel '71 da Mondadori, ma significativamente pochi se n'erano accorti). In esso H. Arendt prende di petto la "retorica marxista della Nuova Sinistra" e il suo slogan maoista "il potere nasce dalla canna del fucile" e respinge con sdegno l'apologia del valore liberatorio della violenza che da Sorel giunge ;i. Sartre e a Fan on. Ci sarebbe molto da dire sulla. critica arendtiana di questi autori. Non è vero per esempio che la loro mitizzazione della violenza sia di matrice biologistica e organicista (nella Arendt, sempre pronta a seguire una diramazione suggestiva del discorso, stupisce spesso la disinvoltura filologica con cui tratta i testi). Inoltre, se si vogliono mettere le idee con i piedi per terra, occorrerebbe ricordare almeno l'esperienza traumatica della guerra e della resistenza algerina nella colonia e a Parigi, ma la Arendt liquida tutto ciò con l'ambigua boutade: "il Terzo Mondo è un'ideologia o un'illusione" (PM., 262). Tuttavia si può consentire con la sostanza dell'argomentazione e cioè sul fatto che scambiare un'esperienza del tutto eccezionale e transitoria come la violenza collettiva con la matrice positiva di nuovi rapporti umani è nel migliore dei casi un tragico errore. ''È vero che i forti sentimenti di fratellanza che la violenza collettiva genera hanno tratto in inganno molta brava gente che ha sperato che da essa potesse nascere una nuova comunità assieme a un 'uomo nuovo'. Questa speranza è un'illusione per la semplice ragione che nessun rapporto umano è più precario di questo genere di fratellanza, che può essere messa in atto soltanto in condizioni di imminente pericolo di vita" (PM., 213). Meno facile e meno convincente è però disfarsi di tutta la concezione realistica del potere, di Marx, di Weber, di quegli autori che hanno identificato il potere con rapporti di dominio nei quali la violenza, nella forma di coercizione economica o di forza legittima in quanto esercitata dallo Stato, gioca in ultima analisi un ruolo determinante. Ovviamente nessun serio teorico della politica ha negato la centralità del consenso, dell'egemonia ecc. per il mantenimento dei moderni rapporti di dominio, nei quali la coercizione diretta deve normalmente rimanere sullo sfondo della scena. All'inverso, neppure la Arendt nega che nei fatti "niente è più comune della combinazione di violenza e potere" (PM., 197). Tuttavia la tesi della Arendt è che in linea di principio potere e violenza siano fenomeni di genere non solo diverso ma antitetico, tanto è vero che il ricorso massiccio alla violenza denuncia l'indebolimento del potere, cioè la perdita del consenso, e, viceversa, più il potere è stabile meno ricorre alla violenza. Ma questa sarebbe ancora un'osservazione di fatto sulle diverse proporzioni in cui consenso e violenza si combinano nella fenomenologia del potere. La vera questione di principio è che per la Arendt il potere non è un complesso di rapporti di dominio, dunque di forza (con un BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE grado più o meno elevato, più o meno aperto, di violenza) ma una libera associazione di individui che istituiscono una comunità politica sulla base del consenso reciproco e dell'autogoverno. "È il sostegno del popolo che dà potere alle istituzioni di un paese, e questo appoggio non è altro che la continuazione del consenso che ha dato originariamente vita alle leggi. Nelle condizioni di un governo rappresentativo si ritiene che sia il popolo a comandare chi lo governa. Tutte le istituzioni politiche sono manifestazioni e materializzazioni del potere e decadono non appena il potere vivente del popolo cessa di sostenerle" (PM., 193). Si può pure essere d'accordo con le intenzioni democratiche della Arendt, ma la sciagurata presenza della violenza nella storia contemporanea più che essere illuminata di nuova luce teorica viene esorcizzata con un escamotage verbale: per definizione il potere politico nasce e perdura con il libero contratto e il libero consenso, per definizione ''dalla canna del fucile nasce l'ordine più efficace ... [Ma] quello che non può mai uscire dalla canna di un fucile è il potere" (PM., 202); per definizione il potere è sempre non violento, se abbiamo postulato che "potere e violenza sono opposti" (PM., 204). In realtà H. Arendt chiama potere politico una certa modalità del potere, da cui coercizione e violenza sono esclusi in linea di principio. Tuttavia non dichiara mai il valore puramente euristico della sua definizione, respingendo anzi come grossolane mistificazioni ideologiche tutte le considerazioni realistiche che evidenziano ciò che non quadra con il modello assunto. Impostata su queste basi la critica arendtiana della violenza è tanto radicale quanto teoreticamente fragile. Allargando il discorso al di là dei saggi contenuti in Politica e menzogna risulta forse anche più chiaro che proprio nella costruzione concettuale di fondo il pensiero della Arendt è meno consistente delle analisi particolari che sono spesso originali e penetranti. Prendiamo la sua idea centrale a partire da Vita activa: l'autonomia della sfera politica. Il libro è costruito sulla distinzione di tre modalità dell'esistenza umana radicalmente diverse. La prima è il lavoro in quanto attività diretta al consumo e al ricambio organico con la natura. A questo livello l'uomo è semplice riproduzione della specie animale. Seconda modalità: lafabbricazione, la creazione di un mondo artificiale di oggetti, anche questo regno della necessità, non più biologica ma tecnico-scientifica, sfera della ratio strumentale e della subordinazione degli individui agli imperativi dell'oggettività. Terza modalità: quella dell'azione "la sola attività che metta direttamente in relazione gli uomini, senza la mediazione degli oggetti o della materia" (corsivi miei). Essa "corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che più uomini, e non l'Uomo, vivono sulla terra" (VA., 14). È questo il regno specificamente umano dell'autonomia, della libertà, dell'autenticità. Ed è anche il mondo dell'agire politico, non della politica degradata a tecniche di dominio o subordinata alla soddisfazione di bisogni materiali, ma della politica come regno intersoggettivo puramente spirituale, caratterizzato dal riconoscimento reciproco di una pluralità di libertà che fondano attraverso patti e convenzioni forme sempre nuove e creative di coesistenza. Potere e libertà coincidono. Come giustamente mette in rilievo P. Flores d' Arcais, nel discorso della Arendt piano descrittivo e piano normativo si mescolano e il suo intento essenziale è di "istituire una gerarchia fra le mo-
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