DISCUSSIONE Hannah A rendi nel /933 e nel 1975. BibliotecaGino Bianco York Times nel 1971. La Arendt dimostra in modo magistrale come gli arcana imperii, l'inganno e il falso deliberato che sono da sempre considerati come mezzi legittimi per il raggiungimento di scopi politici diventino dei boomerang nell'epoca della "defattualizzazione", nella quale ciò che conta non è la realtà dei fatti ma la produzione di immagini. Nella guerra "l'errore di calcolo più grave ... fu quello di decidere delle questioni militari da una prospettiva 'politica e di pubbliche relazioni' (laddove 'politica' significava la prospettiva delle prossime elezioni presidenziali e 'pubbliche relazioni' l'immagine degli Stati Uniti nel mondo" PM., 100). Il totale distacco dalla realtà segna il fallimento della "recente generazione di intellettuali - cresciuta nella malsana atmosfera della pubblicità rampante a cui è stato insegnato che una metà della politica sta nella 'creazione dell'immagine' e l'altra metà nell'arte di indurre la gente a credere in questo mondo di immagini" (PM., 91). Fa veramente piacere, in un periodo di spettacolarizzazione spinta della politica e di teorie che proclamano trionfalmente la fine di ogni nocciolo resistente di realtà, leggere un'analisi tagliente di ciò che produce per gli apprendisti stregoni l'interdipendenza tra inganno e autoinganno. Il secondo saggio riguarda la disobbedienza civile diffusa tra i giovani americani alla fine degli anni Sessanta. Lo sforzo della Arendt è di produrne una giustificazione non morale ma politica. Spesso la disobbedienza civile ha radice in una motivazione individuale di carattere etico e religioso ma "la coscienza è apolitica", "le norme di coscienza fanno perno sull'interesse per l'io. Dicono: attento a fare qualcosa con cui non sarai capace di vivere". Ma la convinzione etica , "non può essere generalizzata; per poter conservare la sua validità, deve rimanere soggettiva. Ciò che non permette a me di vivere potrebbe non turbare la coscienza di un altro" (PM., 133). La coscienza morale deve scendere in piazza e trasformarsi in opinione pubblica, in consenso di un gruppo che si unisce per agire ed è questo che caratterizza la dimensione politica. La disobbedienza civile deve essere tollerata come eccezione etico-religiosa assimilabile all'obiezione di coscienza, oppure è un fenomeno politico normale e positivo? H. Arendt risponde in questo secondo senso, iscrivendo la disobbedienza civile nella forma contrattualistica del potere che le sembra coincidere con il meglio della tradizione liberal-democratica americana. Il potere trae la sua legittimità dal libero accordo di volontà, da un contratto originario rinnovato tacitamente nel consensus universalis che permette al sistema politico di reggere e durare. Ma un contratto presuppone "una pluralità che non si dissolve ma che prende forma di un'unione: e pluribus unum" I cittadini non possono rinunciare all'autonomia e alla differenza, alla pluralità costitutiva del patto politico. La democrazia è vitale nella misura in cui il diritto politico al dissenso e la sua organizzazione attiva nelle associazioni che praticano la disobbedienza civile trovano non solo tolleranza ma riconoscimento giuridico. Una difesa così radicale della disobbedienza civile diffusa nel movement si coniuga però in H. Arendt con una critica impietosa di quelle che considera vere e proprie storture: "la crescente contaminazione del movimento da parte delle ideologie (maoismo, castrismo, stalinismo, rnarxismoleninismo e simili) che di fatto dividono e dissolvono il movimento" (PM., 157); in particolare critica l'ideologia terzomondista che vede come comportamento romantico e di evasione rispetto ai problemi reali ("i loro appelli a Mao, a Castro, a Che Guevara e a Ho Chi Minh sono come degli incantesimi pseudoreligiosi per un salvatore proveniente da un altro mondo; invocherebbero anche Tito e la Jugoslavia se fosse un po' più lontana e meno avvicinabile", PM., 229).
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