Linea d'ombra - anno IV - n. 13 - febbraio 1986

nella giustapposizione degli intermezzi cronologici e dei capitoli narrativi - altra scelta incriminata - l'autrice dichiara i limiti della forma letteraria tradizionale, la sua impossibilità di dire "tutto", di esprimere la vastità della tragedia. La forma, già qui, nell'apparentemente più "classico" romanzo di Elsa Morante, tende a incrinarsi, a rompersi. Il mondo salvato dai ragazzini, specie nelle Canzoni popolari, aveva già anticipato questa scomposizione; ma il carattere di poema di quel libro aveva occultato una tensione stilistica già in atto. L'isola di Arturo è il romanzo più perfetto e armoniosamente intatto di Elsa Morante - in Menzogna e sortilegio la grandiosità della composizione costringe a costruire, a rivelare di più i nessi, l'architettura, mentre l'Isola attira, incanta - ma anche questa compatta perfezione è del tipo ''tolstoiano", copre cioè una latente inquietudine, che sul finire si fa in Arturo più esplicita. La sua materia è scossa, anche se la forma la trattiene e la plasma con mano sicura. La Storia è già molto più sensibile, l'inquietudine si fa scandalo, orrore, denuncia, pietà: i sentimenti, come i fatti e gli elementi oggettivi, bruciano troppo e nessuno schema li può imbrigliare. In Aracoeli lo schema infine si rompe: lo scrittore scende alle radici del dolore e dell'amore e giunge ai limiti del mistero. In questo punto, misura i limiti dell'arte e intuisce il rischio di riprodurre l'ennesima "metafora morta''. L'andirivieni di Emanuele nel tempo e nella memoria è anche un viaggio nel passato e nel presente della letteratura e del suo rapporto con la vita. La Morante sfugge a quel rischio producendo, nel testo, una sorta di rovesciato effetto di "straniamento" rispetto al codice attuale della letteratura. Ciò che nella teoria formalista, attraverso la riformulazione degli elementi linguistici, deve produrre sorpresa, effetto nuovo, qui tende invece - contro l'inaridirsi e il banalizzarsi della scrittura - a restituire alla parola un vero senso; una rappresentatività, un'efficacia, una capacità suggestiva. Le parole si muovono anch'esse in bilico tra i diversi tempi e possono suonare auliche ("ignudo", "laudi") o esoteriche ("falotico", "estuoso", "serrano") o icasticamente replicanti suoni e sensi del presente attualissimo (come nella descrizione dei rumori degli altoparlanti, p. 127). Oltre la scelta delle parole - ricercatissima, più che nei romanzi precedenti - è la costruzione stessa del periodo a risentire direttamente di questa volontà di ritrovare un senso all'arte, alla scrittura, disincagliandola dal punto morto in cui rischia di arenarsi. Aracoeli è intessuto di frasi che sembrano versi - ma versi spezzati, tormentati da continui enjambement, che se non smorzano l'effetto poetico certo gli impediscono di librarsi sopra la sua materia, di farsi "letteratura" svincolata - per eccesso di sortilegio e per pura mimesi - dalla fonte dell'esperienza vitale. Questo avviene, appunto, sul piano stilistico (come in una delle prime pagine: "Forse, del resto, essa sentiva che anch'io, come lei di me, inconsapevolmente di lei sapevo tutto", dove assonanze e allitterazioni predisporrebbero a un effetto d'insieme, se non fosse per le rotture provocate dalle virgole - vere e proprie fini di verso - che riportano il fuoco sulle singole parole; e così avviene in molti luoghi del romanzo), ma, questo procedimento, viene esteso al senso stesso delle frasi e dell'intero romanzo. Continuamente, l'effetto poetico, e specialmente dove potrebbe tendere al sublime, al meraviglioso, al celeste, viene ricondotto alla sua cifra più aspra. Come Emanuele, che sente sovrapporsi la filastrocca antica di Aracoeli e le canzonette d'oggi, la lingua della madre all'italiano sloganistico, standard, attuale, e che rivede il tempo della sua bellezza, della tenerezza e dell'amore corrisposti, dissolversi mentre BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE appare il suo presente desolato. Si veda come agisce questo procedimento nei seguenti esempi. Il primo è un'immagine di Aracoeli, con un esordio felice: "L'amore le giocava nelle iridi, allegro e ingenuo di nuovo, come un messaggio infantile della prima Aracoeli"; a questo punto, il tono s'incupisce e interrompe bruscamente l'effetto di leggerezza lieta: "ma capitava che poi d'un tratto l'occhio le piombasse in una fissità spaurita, quasi che, nel pieno d'una mattina, vedesse farsi notte" (p. 241). Nelle altre due brevi citazioni è ancora piu esplicito lo sforzo di umiliare, per così dire, il potenziale celeste della scrittura. Qui sono gli stessi elementi naturali a venir fissati, quasi letteralmente, al loro senso terreno e precario: "Un vento senza più forza corre basso e febbroso, strascicando per l'aria le nubi simili a stracci bagnati" (p. 124); "un cielo che non somiglia a una volta d'aria, ma a una crosta di ceneri giallicce, forse depositate da astri in decomposizione già spenti da millenni" (p. 128). Aracoeli sembra quasi irridere a molte pagine dei romanzi precedenti, ai miti di Arturo, alla visione celeste finale di Elisa, ai "ragazzini" ritrovati oggi a gridare slogans e a stordirsi nel consumo di canzoni-rumori. Aracoeli, come ha scritto Fortini, racconta il periodo in cui "la nostra vita è passata dalla tragedia alla demenza". Un passaggio presentito dalla Morante, specialmente a partire da dopo L 'Isola di Arturo (ma già lì intuìto), e anticipato nel poema di Edipo e nello stesso Addio de Il mondo salvato dai ragazzini. L'ultimo romanzo di Elsa Morante è una sfida dell'arte a se stessa, l'invito a provarsi a rappresentare la demenza e perciò stesso a contrastarla. È, insomma, l'ultimo scontro col Drago. Congedo Emanuele non somiglia a nessuno dei tre personaggi fondamentali che, secondo Elsa Morante, rappresentano i possibili atteggiamenti dell'uomo difronte alla realtà: Achille, don Chisciotte, Amleto. Difronte al Drago, Emanuele non sceglie per istinto naturale di combattere (come Achille) né si rifugia in una finzione di lotta (come don Chisciotte) o si ritrae in una sorta di non-esistenza (come Amleto). Egli è un ibrido solitario, senza forza, qualità o bellezza, e sa di esserlo. Soltanto questa consapevolezza, infine, gli aprirà un estremo spiraglio d'amore: il sapersi così simile al padre, ritrovato in un misto di pietà e ribrezzo, il sapersi guardare in lui come in uno specchio trovando la risorsa morale ultima per sentirsi solidale. Analogo dev'essere stato il percorso di Elsa Morante, il suo atteggiamento verso l'altro da sé, verso se stessa e verso la letteratura. Ha conosciuto maturità e vecchiaia; ha visto il Drago impadronirsi della realtà e stendere su di essa il suo dominio notturno; ha visto la poesia e l'arte smarrirsi in questo buio. S'è indignata, commossa, disperata. Ma ha tenuto fede al compito che si era prefissa: "Se ha partecipato, come uomo, alla vicenda angosciosa dei suoi contemporanei, e ha diviso il loro rischio e riconosciuto la loro paura (paura della morte), da solo ha dovuto, come scrittore, fissare, per così dire, in faccia i mostri aberranti (edificanti o sinistri) generati da quella cieca paura; e smascherare la loro irrealtà, col paragone della realtà, della quale appunto è venuto a portare testimonianza'' (Pro o contro la bomba atomica). Buona notte, Elsa.

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