DISCUSSIONE disseminati, affiorano e scompaiono e costituiscono i punti di paragone costante della scrittrice, anche se la sua fonte diretta e privilegiata è l'esperienza viva delle cose: "È la realtà che dà vita alle parole, e non il contrario" (Pro o contro la bomba atomica). È, anzi, proprio dal legame con quelle culture (con il "grande mandato della letteratura", ha scritto Fortini) che Elsa Morante traeva spunto per misurare il rapporto attuale tra arte e vita (cioè tra arte e storia). Il gesto dello scrivere, naturalissimo in lei, non era mai libero da questo problema fondamentale di tutta la letteratura: giustificarsi, dire il perché della propria esistenza, e dirlo nel modo legittimo all'arte, cioè mostrandosi nella propria forma e alludendo al proprio intrinseco messaggio. Le scelte formali, pur fedeli a quella molteplicità di registri e incuranti d'ogni "attualismo", si sono costantemente misurate con quel problema. È stato ancora Fortini, recensendo Aracoeli, a notare come lo schema tradizionale, "ottocentesco", del romanzo "viene travolto dal vento dell'assoluto" (di ciò che sta, credo, al di fuori e oltre la letteratura). Il procedere per frammenti, brevi o lunghi, è solo la più evidente delle conseguenze - quella che più sembra distaccare Aracoeli dagli altri romanzi della Morante. Ma non è la sola. In particolare, Fortini rilevava l'uso insistito della similitudine, che veniva qui a sostituire la più frequente scelta di metafore tipica degli altri romanzi (i quali anzi, soprattutto L'isola di Arturo, erano tutt'interi delle vivide, pregnanti, prolungate metafore). La similitudine è una figura "logico-discorsiva" e, tra tutte le figure semantiche (specie BibliotecaGino Bianco rispetto alla metafora o alla metonimia), è forse il "tropo" più elementare ma anche, in virtù di ciò, il più difficile da utilizzare senza cadere nella banalità. Ed è, inoltre, la figura che meglio esprime il centro problematico di Aracoeli: una vita che guarda dentro di sé, attorno a sé, dietro di sé, - e di continuo si confronta: con la propria infanzia, con la gioventù di oggi, con la vecchiaia e lo strazio del padre, con i Poteri e i Destini-, e giunge infine a una pietraia dove assiste all'apparizione della madre, in un miraggio estremo e ulteriormente disperante. Un miracolo che non apre le porte di un Paradiso, semmai le rinserra, e rivela con irrisione che "non c'è niente da capire", che il mistero (del destino, della sofferenza) non deve venir violato (che solo questo l'intelligenza deve capire). Ecco: qui, nel romanzo, torna una metafora, in questa apparizione e nel suo messaggio. Forse quella, tra le diverse possibili, della letteratura che ha sprecato se stessa e consuma il suo "mandato" nella pretesa di possedere ormai le chiavi di tutti i misteri (e perciò gioca con essi o, al contrario ma specularmente, se ne sta, introvertita, in una scettica afasìa) oppure placidamente li ignora e finge di esistere nell'imitazione sciatta di ciò che è stata. Qualcuno ha detto che la maggiore fra tutte le metafore è la letteratura stessa. Nelle sue attuali condizioni, si può dire di essa ciò che si dice di talune immagini retoriche: che si tratta cioè di "metafore morte", dove il nome, la descrizione, l'idea evocata, coincidono ormai con l'oggetto, oppure non significano più nulla. Gran parte della letteratura d'oggi e - per l'involgarirsi del gusto dei lettori - anche di ieri è divenuta, o rischia di diventare, una metafora morta. Aracoeli è anche una reazione a tutto ciò - lo ha ben visto chi ha cercato di ridurlo a "romanzo ottocentesco", a "surrogato dannunziano", insomma a un'operazione reazionaria. Lo si era detto, in altri termini ma con uguale contenuto, anche di La Storia. Amato e odiato per la sua scelta, per la sua denuncia altissima dello "scandalo" interminabile, quel romanzo aveva raccolto tra i critici più scetticismo e più ripulsa che Aracoeli. Non gli si perdonava, soprattutto, di aver "restaurato", dopo un decennio di "audaci ricerche e innovazioni", una "grande forma tradizionale". Ma anche in quel romanzo soffiava, a scuotere lo schema, ''il vento dell'assoluto". Come in Aracoeli penetra dal varco del dolore e del mistero, in La Storia soffia portato dalla compassione e dalla reiterata, insostenibile presenza della tragedia. È stato anche rimproverato a Elsa Morante di aver reintrodotto, con La Storia, la presenza "onnisciente" e preponderante del narratore. Ma proprio i punti nei quali questa invadenza veniva rintracciata erano piuttosto i luoghi nei quali lo "schema", la "grande forma", si flettevano. Si ricorderà, ad esempio, l'episodio della morte di Giovannino in Russia (concluso dal famoso - o famigerato - "Buona notte, biondino"; pp. 385-387) o l'altrettanto criticato episodio di Vilma, l'ebrea creduta morta e ricomparsa e poi "sopravvissuta a lungo", secondo l'assicurazione dell'autrice che ogni tanto l'incontrava mentre sfamava i gatti e parlava con essi (pp. 479-481). In entrambi i casi si è voluta vedere la volontà di presenza dello scrittore, oltre i limiti della stessa convenzione letteraria a cui si pensava appartenesse il romanzo. In realtà, sotto l'urto della materia viva - la tragedia - la forma si incrinava, la convenzione veniva abbandonata (se mai era stata davvero accettata). Dove irrompono la pietà, o una forma di sublime, come nella descrizione di Vilma, la "realtà che dà vita alle parole" piega la forma letteraria, le conferisce un senso e una natura nuovi. Anche l'invenzione del linguaggio di Useppe, nei suoi giochi linguistici, nelle onomatopee, sia nei soliloqui che nei dialoghi con Bella e con gli adulti, risponde a questa necessità. E perfino
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