ragazzini, tornato nell'Addio a rimproverare alla sua stessa artefice le illusioni dell'infanzia ("Tu mi distraevi dall'insonnia con le tue favole / e ascoltavi come fiabe le profezie disperate I dei miei sogni. Mi promettevi che sarei stato I un re sulla terra, mentre la terra mi scacciava." ... ). Fuori dall'isola, il mondo è la terra legittima degli l.M., e della loro specie più ingrata: gli Infelici Molti-felici-di-esserlo, coloro i quali applaudono al passaggio del Drago. "Colui che è arrivato nella città per uccidere il drago, ovvero lo scrittore che si muove nel sistema come avversario irrimediabile, sa che nei punti estremi di crisi lo aspettano giorni precari". La sua presenza è "uno scandalo" e la comprensione gli viene, rara, da un Edipo, trattato da pazzo nella clinica di Colono (dove la pietosa devozione di Antigone preannuncia quella di Emanuele per il padre). Useppe, Iduzza e la cagnetta Bella de La Storia sono l'Arturo che non è mai uscito dall'isola - per brevità di vita Useppe, per ingenuità e purezza Iduzza, per condizione naturale Bella - e tuttavia è fin lì raggiunto, colpito dallo scandalo della Storia. Non c'è ormai isola inaccessibile al Drago dell'irrealtà: Procida, Roma o El Almendral sono alla sua mercé. Quanto era riuscito a Elisa in Menzogna e sortilegio, e cioè rifare la storia, tradurla in leggenda e favola, e concluderla in un sogno stellato, non sarà mai più possibile. Scritto durante l'incubo devastante dell'ultima guerra mondiale, concluso e apparso subito dopo, Menzogna e sortilegio è l'unico romanzo di Elsa Morante che rappresenti vittoriosa l'impresa di contrastare il Drago dell'irrealtà, della follia. Negli anni più cupi del secolo, una storia privata, intima e corale, riemerge con forza suggestiva e si oppone, nella sua concretezza di vicende e nella sua eco fantastica, alla catastrofe in corso. Fuggiasca tra i profughi e i senzatetto e poi anch'essa partecipe delle attese del dopoguerra, la giovane Elsa Morante convoca nella casa di Elisa personaggi grandi e meschini, luoghi di cui non dice il nome, epoche senza data, ma certo contigui tutti alla storia in corso. L'istinto di morte, Thanatos che la percorre, trova un argine in questo sforzo di Eros, dell'arte. L'orrore sembra fermato, respinto: quando, finita la guerra, Menzogna e sortilegio compare sembra uscito non da quegli anni violenti e strazianti ma dal loro sogno più intimo, dall'ansia di vita. È stata, questa, una consolazione, un inganno dell'arte dedicato ai viventi minacciati di strage? Era possibile, già allora, pensare che Auschwitz e Hiroshima non fossero il peggio, la fine di un tempo crudele e irripetibile? È difficile dire se Elsa Morante ha ceduto allora a quello che, più tardi, chiamerà "il vizio della speranza". Certo il suo cammino successivo si farà strada denunciando l'irrealtà, recuperando la favola e il mito ormai solo nella memoria fantastica, come età lontana e trascorsa. Il mandato attribuito all'arte sarà quello, sempre più, di "illuminare il punto maledetto I prima che scatti la trappola". Il mondo è "una pietraia deserta", come si rivela a Emanuele, e attende il suo "punto estremo del futuro. Una sorta di mezzogiorno accecante, o di mezzanotte cieca". La storia dei personaggi morantiani è questo cammino sul sentiero terribile della condizione umana di oggi. Shahrazad di un tempo che macina le favole e celebra l'irrealtà, l'illusione degradata, specchio sudicio e fasullo di un reale deprivato di immaginazione vitale, di giustizia e di pietà, Elsa Morante ha narrato questa vicenda con formidabile forza rappresentativa, con una passione coinvolgente, fino all'estremo sacrificio di sé, fino al rifiuto supremo. Non ha infine salvato la propria vita, come la Shahrazad dei racconti arabi, anzi; forse non è neppure possibile ad alcuno, oggi, riconquistare con la pura forza dell'arte la coscienza al senso del reale. Ma certo pochissimi hanno saputo mostrare con più chiarezza le radici dell'irrealtà ed evocare il senso di BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE una possibile, riacquistata realtà. Nei commenti seguiti alla sua morte, è stata da alcuni ricordata la repentina vecchiaia rovinatale addosso dopo una giovinezza protrattasi, nell'aspetto e nello spirito, ben oltre la maturità. Forse si è troppo insistito su una individuale e quasi psicosomatica crisi dell'ultima Morante, come se in Aracoeli si riflettesse soprattutto questa crisi senile. È pur vero che il libro traduce anche una personale e unica sensibilità, ma non è legittimo circoscrivere in quest'ambito la disperazione dell'autrice e le sue scelte degli ultimi anni. Ciò che ha reso disperato l'ultimo periodo di Elsa Morante - anche nei momenti in cui la sofferenza fisica le dava tregua e anche prima che divenisse a lei insopportabile - non è stata l'irruzione della vecchiaia, bensì la sua scelta di restare vigile nella notte del Drago, di attraversarla e di raccontarla fino in fondo, fissando lo sguardo su ciò che sta al di qua della menzogna e del sortilegio. E questo sguardo si fa più doloroso e profondo in Aracoeli, romanzo splendido e senza speranza, poema pietroso del corpo e della mente, della condizione umana. Lì, Emanuele conclude il cammino di Arturo, ed entrambi, con Useppe e Iduzza e Bella e tutti i "ragazzetti celesti", rimangono esclusi dalla casa di Elisa e del gatto Alvaro. Sortilegio e mimesis Elsa Morante ha percorso questo itinerario e ne ha tracciato la carta servendosi dello strumento-scrittura. Doveva essere - ed è stata - una scrittura capace di modularsi su più toni. Doveva essere luminosa - richiamare il sogno, il mito, la favola, e cioé creare il sortilegio della poesia e dell'arte. Doveva saper dire il reale, la superficie e la profondità del reale, misurandosi con il lettore - e con la potenza distorsiva e illusionistica dell'irrealtà - nel gioco difficile e pericoloso della mimesi. Resa alla perfezione sulla pagina, l'ambiguità stilistica riflette la cifra interna della scrittura di Elsa Morante, la sua poetica. Chi ha meglio capìto - insieme a non molti altri -, e meglio spiegato, questo carattere dell'arte morantiana è stato Giacomo Debenedetti, in una lontana recensione ali' Isola di Arturo. Commentando quel "poema narrativo", Debenedetti ne evidenziava i diversi registri e in particolare, sul piano della forma, ne analizzava un campione: "un mucchio d'alghe, macerate dal salino primaverile, mandava un odore dolce e fermentante, come di muffa sull'uva". Il grande critico notava come all'effetto melodico di questa - e di tante altre frasi del romanzo __: "concorrono registri disparati, dei quali non sospettavamo la possibilità di confluire in esaltanti parentele armoniche: la spiaggia, la muffa, l'uva, la primavera, l'estate marina, gli autunni in campagna". E notava anche come alla suggestione poetica dell'insieme corrispondesse una precisione realistica e documentaria rigorosa, tanto che Procida, l'isola di Arturo, riceveva una "doppia e simultanea natura di luogo reale e di luogo favoleggiato". Assistita da un'ispirazione e da un talento originalissimi e alti, l'opera letteraria di Elsa Morante si radica altresì in una cultura estesa, cosmopolita, sincreticamente riplasmata in personaggi e vicende. Lo si è notato più marcatamente a proposito di Aracoeli, in particolare sono stati Franco Fortini, Goffredo Fofi, Cesare Garboli e, su questa rivista, Nicola Merola. L'opera, lo stile stesso della Morante rinviano a una tale complessità di riferimenti, che nei testi vengono
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