Linea d'ombra - anno IV - n. 13 - febbraio 1986

DISCUSSIONE ELSAE ILDRAGODELLANOTTE Gianfranco Bettin "Io ti rendo grazie per la tua canzone che adesso mi si spiega nella sua doppiezza e nel suo favore splendente, come certi sogni d'orrore, che invece si scoprono spie del cielo mandate a illuminare il punto maledetto prima che scatti la trappola". (da La serata a Colono) Non è funzione dei poeti quella di consolare degli orrori, di illuminare il buio di spettacoli e artifici mutando la cecità in abbaglio. Nella sua veglia di mille notti, Shahrazad non consola chi l'ascolta né compiace se stessa nel gioco meraviglioso dell'arte. Salva, bensì, la propria vita e riconquista infine all'integrità del reale l'anima del sultano Shahriyar, già confuso dal tradimento e dall'ira. I versi qui citati in apertura sono tratti da una preghiera dell'Edipo trasportato da Elsa Morante in una clinica contemporanea nella sezione del Mondo salvato dai ragazzini intitolata La serata a Colono. Sono versi che potrebbero suonare a commento della stessa intera opera della Morante e soprattutto della sua parte meno compresa e tormentata, di cui Aracoeli è il frutto più sofferto e maturo, ma che è sempre rintracciabile nell'itinerario artistico morantiano. Invece, ancora nei giorni successivi alla sua morte, nello scorso novembre, Elsa Morante è stata oggetto di commenti critici che hanno quasi sempre ignorata questa complessità e ambiguità vitale della sua produzione. Si è assistito a commenti ovvi, anche quando ispirati da sincera stima, alla riproposizione di stereotipi più o meno consolidati - da quello, più datato, dell'artista scontrosa e inavvicinabile all'ultimo, per certi versi irrispettoso, della donna disperata per vecchiaia e disillusioni. Oppure si sono visti dilatare taluni aspetti dell'opera, distinguendoli, senza connessione col senso profondo e unitario che la ispira e la percorre tutta. Così nel solare e celeste romanzo di Arturo non si è visto il sogno-profezia d'orrore che già conteneva; nel corale La Storia, scandito da una "grande forma" tradizionale, non si è vista la tensione intima, il già allignante rompersi nell'urto di realtà ed arte della forma stessa; e ancora nel "disperato" Aracoeli non si è colto l'affiorare di una materia lungamente lavorata, che già bruciava nelle opere precedenti, anche nelle più lontane, e nell'ultima solo veniva allo scoperto e divampava nella parola e nella forma. Insomma, non si è vista l'opera morantiana come un itinerario compiuto in maniera straordinariamente coerente, pur nel tono mutevole e in evoluzione continua del suo rapporto con la vita e con la pagina scritta. Un itinerario che si è protratto e arricchito di personaggio in persona-g io, di libro in libro. BibliotecaGino Bianco La casa di Elisa e il deserto di Emanuele Rimasta sola, dopo la morte della madre adottiva, in un vecchio sontuoso appartamento, Elisa - una "goffa creatura che può sembrare a momenti una vecchia fanciulla, a momenti una bambina cresciuta male" - ripopola con visioni e storie fantastiche "il deserto e il silenzio" di quella casa. La storia di famiglia si volge in "stramba epopea" di personaggi favolosi. Il punto di partenza di Menzogna e sortilegio è, come sempre in Elsa Morante, definito psicologicamente e sociologicamente in termini precisi: si tratta di un "dramma piccolo-borghese" - avverte Elisa - "tale è la fonte della storia che mi accingo a narrarvi. La quale non tratta di gente illustre: soltanto d'una povera famiglia borghese". Di qui procede il romanzo, ascoltando "l'impercettibile bisbiglìo" della memoria che "recita i ricordi e i sogni della notte". Emanuele, invece, comparso quarant'anni dopo a inseguire le tracce improbabili della madre Aracoeli fino al paesetto di lei, in Spagna, non troverà che una ''pietraia deserta". Aracoeli "non ha lasciato né carte, né eredità, in famiglia". Emanuele ha attraversato il vivere come "esperienza della separazione" e ora è davvero solo, nel suo timore del mondo e nel suo bisogno d'amore. La sua anamnesi non dà frutto, solo sterili flashback, dolorosi, privi di suggestione e senza leggenda. La memoria, invece che affabulare, si distrae in un continuo andirivieni tra le età dell'infanzia e dell'oggi desolato, tra "il tempo in cui ero bello" e il tempo in cui si rivelano e divampano, come inguaribili malattie, la bruttezza e la fragilità. Elisa - che nel nome trattiene l'eco di un paradiso antico - conclude la sua narrazione polifonica, grandiosa, in un'immagine serena (la costellazione del Cugino o degli Amanti riuniti) e nel canto per il Gatto Alvaro {"L'allegria di averti amico/basta al cuore ... "). Emanuele - che subisce nel nome l'ironia di chi dovrebbe almeno avere un dio dalla sua parte - chiude senza speranza il resoconto del suo doppio viaggio nel tempo e nello spazio. Gli rimasero, infine, solo un moto di pietà e un pianto d'amore (per il padre vecchio e affranto), in cui si trattiene un calore residuo, una possibile e ultima solidarietà di sangue e di condizione. L'itinerario che unisce Elisa ad Emanuele - cioè il primo e l'ultimo protagonista dei romanzi di Elsa Morante - è scandito da altre figure-chiave, in ognuna delle quali si precisa la trama di una riflessione ininterrotta. Al suo centro sta l'esperienza della vita nel contatto con la realtà, cioè con la storia, il luogo della verità o dell'alienazione. L'arte - la scrittura - è il mezzo che illumina la dimensione autentica dell'esperienza, il suo carattere liberatorio o la sua caduta nell'irrealtà. Questa è dunque 1a funzione prima dell'arte: essere, appunto, "spia del cielo", essere doppia: sogno d'orrore e favore splendente. Nel suo lungo lavoro di scrittore, Elsa Morante ha cercato sempre questa ambivalenza, che è la radice di ogni vera complessità, e l'ha tradotta in figure, in situazioni, che si richiamano a vicenda. Arturo, lasciata l'isola dei miti, delle favole, delle iniziazioni, approda alla dura terraferma; lo ritroviamo nel Mondo salvato dai

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