22 STORIE/ROTH "E come si chiama, l'altro?", domandò lei, voltandosi verso di me. "Yotsee. Yotsee Hunt". "E tu. Yotsee. Dovreste esser benedetti, per aver salvato mio figlio". "Oh", disse Petey. Avevano capito. "Non è nulla", disse Yotsee. "Ciccio - voglio dire, lui è dell'isolato". Mario fece col dito un giro esplicativo. "Voi ... Se sapessi parlare meglio", disse lei, "ve lo direi. Tutti quanti avete una mamma. Loro capiscono. Un giorno domandateglielo, ve lo spiegheranno". "Macché, non gli raccontiamo niente. Che differenza fa?", disse Yotsee. "Ecco qui un dolce da parte mia". La fissarono. "Per noi?", domandò Petey. "È per voi. Dovete ricordarvene". Lo presero dalle sue mani - Petey lo prese. "Grazie", disse. "Prego", disse mia madre. La seguii fino ai gradini del portone di casa, e lì restammo per un po' a guardarli. Petey brandiva il dolce su in alto. "Ehi, Puzzola! Guarda!". Il resto della banda converse su di loro. Udivamo le loro grida avide: "E noi?", "Ehi, su, un pezzo!''. Il dolce fu spezzato e diviso e mangiato con gusto. Ancora masticando, Mario ci additò. Mia madre rispose con un cenno della testa. "Lo vedi?". Si volse verso di me. "Di che avevi paura?". "Non lo so". "Avevi paura che non gli piacesse il dolce ebraico. Che razza di gente sarebbe se non gli piacesse il dolce ebraico? Credi forse che sarebbero venuti a salvarti?", disse, e entrò in casa. L'AGRIMENSORE D ra con un'aria di repressa eccitazione che l'esile uomo di mezz'età dai grigi capelli scarmigliati posò lo scatolone che portava, aprì, facendolo scattare, un treppiede, e tirò fuori dallo scatolone un tacheometro da agrimensore. Armeggiava dando l'impressione che stesse facendo qualcosa di cui non aveva molta pratica ma che aveva provato e riprovato, aggiustando le gambe del treppiede e le viti di livello con un che di frettoloso e di nervoso. Qualche minuto prima, insieme alla donna che lo accompagnava, era sceso da un tassì con il loro armamentario; aveva pagato il conducente, e subito si era diretto al luogo dove ora si trovavano. Anche questo lo aveva fatto con una sicurezza che indicava come il posto fosse stato scelto in precedenza. Dopo un po', ebbe il tacheometro livellato come voleva e si mise a stabilizBibliotecaGino Bianco zare il piombino che ne pendeva. La donna, anch'essa di mezz'età ma più alta e slanciata dell'uomo, con un volto gentile e una fronte ampia, portava una stadia a incastro, e ora la estese parzialmente. Erano sul marciapiede di ponente della breve, larghissima Avenida del Cid, a Siviglia, e l'uomo aveva sistemato il suo tacheometro nel mezzo dell'entrata della Fàbrica de Tabacos, un enorme edificio grigio di un solo piano ma che si estendeva immenso in lunghezza e larghezza. Una volta vi venivano prodotte sigarette; ora l'edificio ospitava l'Università di Siviglia. Di qua e di là dell'agrimensore e della sua assistente si allungava un muretto di pietra che fronteggiava un largo, profondo fossato senza acqua e pieno di erbacce, che correva parallelo alla facciata della Fàbrica de Tabacos dietro di loro. "Il centro,esatto dell'entrata, vero?" domandò l'uomo, raddrizzandosi e aggiustandosi gli occhiali. La donna assentì. Sembrava più padrona di sé di quanto non lo fosse lui, non perché fosse sotto minore tensione ma per carattere. L'uomo trasse dalla tasca della giacchetta un piccolo taccuino. "No, ora non mi serve", borbottò, e spazientito rificcò il taccuino in tasca. "Il metro. No, la stadia. Ora è lavoro tuo". "Sono pronta", disse lei. "Va bene. Fai una cinquantina di passi lungo il muretto", disse lui. "A questo punto, gìrati, semplicemente. Tienti addossata al muretto''. Obbediente, la donna si allontanò da lui a lunghi passi fermi e misurati, reggendo la stadia. Si fermò, si girò, e piantò per terra il piede della stadia. "Va bene. Ora tienla su, così posso centrare". Lei tenne eretta la stadia; lui girò rapido il tacheometro, e cominciò a fare degli aggiustamenti. "Piegala verso di me. Bene. Tienla così. Proprio così - ottimo. Adesso torna qua". Rapido, tirò fuori il taccuino, si appoggiò al goniometro dello strumento, e buttò giù dei numeri. La donna, tenendo la stadia ritta davanti a sé come un'asta, tornò dove era lui. Intorno a loro imperava la quiete di una mattina domenicale. La maggior parte degli abitanti di Siviglia probabilmente non si era ancora alzata da letto, e l' Avenida del Cid era quasi vuota di gente. Poche le automobili o gli autobus in vista. A una estremità del largo viale si trovava la glorieta, o rotatoria, di Don Juan d'Austria, dove le acque di una grande fontana scintillavano al sole mattutino nel loro gioco di intrecci dalla periferia al centro, e sciabordavano da vasca a vasca. Un po' oltre la glorieta una grande gru radiale si ergeva come una goffa croce rossa in mezzo a dei nuovi edifici governativi in costruzion~. All'altra estremità del viale si trovava la glorieta di San Diego, uno spazio aperto circondato dal Parco Maria Luisa e da edifici rimasti dalla Esposizione Ispano-americana degli anni Venti. Alberi costeggiavano la avenida, e molte strade si immettevano da varie direzioni nelle glorietas. Dominava tutto ciò l'elemento centrale dell'area, la monumentale statua equestre del Cid Campeador, eroe semileggendario della Spagna dell'undice-
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