Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

92 SCHEDE/BARENGHI organismo testuale unitario: la correlazione, l'orientamento reciproco dei diversi livelli strutturali dà a ciascuno di essi, nella prospettiva lotmaniana, un significato, lo semantizza; e d'altra parte il prodotto dell'incrociarsi dei diversi significati parziali converge verso il finale determinarsi di un macro-significato, che è poi l'interpretazione del mondo che il testo vuole comunicare, o meglio la sua "modellizzazione". Questo concetto di "modellizzazione", tipico della semiotica, è un altro asse strategico di Lotman, mediante il quale viene ricuperato il problema semantico del riferimento, del rapporto con la realtà extratestuale. In questo modo infatti vienP.a cadere la pseudo-alternativa tra "formalismo" e "realismo", perché ogni testo si rivela "realistico" nella misura in cui costruisce un modello del mondo: soltanto che questa modellizzazione (la semantica estensionale del testo) può essere decifrata solo a partire da una corretta evidenziazione delle relazioni interne, che sono già tutte (e questo è un accento tipicamente lotmaniano) semantizzatè, portatrici di significato. Su queste basi teoriche Lotman può permettersi di fare piazza pulita dell'interpretazione, derivata da Belinskij e poi ovviamente prevalsa nell'epoca sovietica, dell'Onegin in chiave di "tipico" e di "realismo" nel senso tradizionale del termine. La paradossale adeguazione al reale perseguita dall"'Onegin", che è la chiave della sua straordinaria complessità semanticostrutturale e perciò stesso (secondo Lotman) della sua bellezza, sta invece nel tentativo di simulare la vita stessa, la sua varietà e irriducibilità a qualsiasi schema, non rappresentandola, ma ricreandola. "Si poneva così", per Puskin, "il compito, irrealizzabile nella pratica, ma molto significativo come orientamento, di creare un testo che non fosse inteso come tale, ma equivalessea ciò che del testo è l'opposto: la realtà extratestuale. Puskin, tuttavia, percorse qui la via apparentemente meno prevedibile: anziché attenuare la sensazione della convenzionalità letteraria, la accentuò all'estremo". Puskin pensa cioè che, poiché ogni artificio letterario (e anche ogni decisa scelta formale) semplifica arbitrariamente il reale, ma d'altra parte l'atto stesso di scrivere consiste nell'impiegare artifici e forme, l'unico modo di simulare la vita soddisfacentemente sia quello di giustapporre e intrecciare insieme, persino con ostentazione, moduli formali diversi e discordanti che, demistificandosi l'un l'altro, ed esibendo per contrasto la propria unilateralità, relatiBibIi OÌe CaGino Bianco vità e convenzionalità, sommati insieme produrrebbero però un'impressione complessiva di casualità (apparente) e di non convenzionalità: in altre parole: di realtà. Questo intenzionale "principio delle contraddizioni" è per Lotman il segreto dell'Onegin, la sua paradossale unità profonda, che a torto i critici, disorientati dall'irriducibilità del testo a uno schema interpretativo unitario, hanno cercato di appiattire, trascurando così le indicazioni, molto chiare ed esplicite, dello stesso Puskin: "Ho rivisto tutto scrupolosamente; / le contraddizioni sono moltissime, / ma correggerle non voglio". Lotman evidenzia così e spiega le incongruenze che caratterizzano il "romanzo in versi" (e questa è già la prima, capitale contraddizione) a tutti i suoi livelli: dall'incoerenza psicologica dei personaggi, alla ripetuta messa in opera di situazioni topiche che preparano apparentemente eventi che poi puntualmente non si realizzano, alla sovrapposizione di punti di vista non conciliabili, alla pluralità d'intonazioni ritmicosintattiche e di registri lessicali. Plurilinguismo costitutivo, dunque, secondo il quale, se ogni stile va messo in crisi, il discorso diventa vero nella misura in cui ogni suo tratto è autoironico, e il verso si svela prosa, la narratività si fa identificare con la banalità: "Il romanzo esige la chiacchiera", come suona un memorabile aforisma puskiniano. Perentoria caratterizzazione di un testo, quella di Lotman, e, più in generale, suggerimento prezioso per riprendere le questioni del definirsi di una poetica della "modernità" a partire dallo sconvolgimento delle gerarchie degli stili e dei generi, e della natura poli-logica della parola romanzesca, riallacciandosi alle capitali ricerche di Auerbach e di Bachtin. C'è ancora qualcos'altro, però, che Lotman non ci dice, ma che pure costituisce con ogni probabilità una semantica seconda, implicita del suo discorso. La scuola di Tartu gode, nell'Unione Sovietica, di privilegiate condizioni di libertà di ricerca, grazie al suo prestigio, in parte anche a certe autonomie politico-amministrative dell'Estonia, ma a patto di non occuparsi se non marginalmente della letteratura contemporanea, quella dell'età sovietica, e di evitare sistematicamente problemi troppo scottanti. Difficile per noi, a questo punto, non percepire, nella sistematica accentuazione della questione del plurilinguismo, nell'enfasi posta sull'asimmetria e sulla destabilizzazione strutturale come produttrici di senso, qualcosa di più di una teoria semiotica: un messaggio indirettamente politico, un suggerimento più ampio e coinvolgente, impraticabile eppure necessario. COMESONOFATTI I ROMANSZTIORICI Mario Barenghi In sede di estetica e di analisi letteraria il destino del romanzo storico è stato segnato fin dagli inizi dal dualismo insito nella sua stessa definizione, romanzo e insieme storia, finzione e realtà, invenzione fantastica e ricostruzione erudita e documentaria. La natura così esplicitamente dilemmatica del genere è apparsa per lo più contraddittoria: esemplare a tale riguardo resta il giudizio pronunciato dal Manzoni, che nel suo celebre saggio del 1850 giunse in sostanza a condannare tutti i "componimenti misti di storia e d'invenzione" in nome di una tutela intransigente del vero storico contro gli arbitri dell'immaginazione individuale. Noi ora sappiamo che in quella valutazione, così severa pur nella pacatezza del dettato, si celavano anche motivazioni di tipo ideologico: le stesse cpe in ultima istanza tramano la tormentatissima concezione dei Promessi Sposi, facendone a un tempo il più grande, il più inquietante e il più problematico fra i romanzi storici del primo Ottocento. Ma anche senza toccare questo estremo, tutti coloro che si sono occupati del romanzo storico hanno sempre ravvisato fra i due spioventi dell'etichetta di genere una sorta di soluzione di continuità: come se tra fiction e non fiction la saldatura dovesse risultare di necessità imperfetta, aleatoria, e in qualche misura perfino posticcia. L'impressione di contraddittorietà veniva poi accentuata dal profilarsi di ulteriori e non meno delicate antitesi. Ad esempio, da un lato la ricognizione del passato a scopo di esemplificazione e conferma di verità generali, dall'altro la formulazione di principi morali e politici universalmente validi, ancorché ammantati di storicità; ovvero, da un lato l'assunzione di un "altrove" spazio-temporale come pretesto per il dispiegarsi della fantasia, dall'altro il rispetto della verosimiglianza piscologica o la riproposta (anche fortemente anacronistica) di situazioni e comportamenti familiari o convenzionali. In ambedue i casi i poli della realtà e della finzione finivano irt sostanza per invertirsi, ma l'immagine del romanzo storico non ne usciva che più consolidata nel suo carattere ibrido e duale. Anima storica e anima romanzesca, comunque rispettivamente definite, seguitavano ad apparire intimamente scisse, come termini di un'inevitabile competizione -quando non addirittura di una ir-

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