Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

Neve a New York (foto di O. Franken/Sygma/agenzia· Grazia Neri). co cavallo bianco, discendente dai pegasi e ippogrifi delle fiabe, dei romanzi ariosteschi, dei film dei Taviani, il quale entra una mattina all'alba nella magia bianca di New York sotto la neve. In un quieto mattino d'inverno in cui la neve copriva le strade dolcemente, non molto alta, e il cielo era una distesa di stelle tremolanti, fuorché a oriente dove cominciava ad albeggiare in una marea cilestrina, c'era un cavallo bianco. L'aria era immobile, ma presto avrebbe preso a palpitare quando fosse spuntato il sole e i venti dal Canada si fossero scagliati lungo l'Hudson. Racconto d'inverno non è un grande romanzo, e tuttavia nel suo ambizioso programma di impacchettare, dentro il contenitore narrativo del romanzo-fiume o del polpettone commerciale, una straordinaria quantità di elementi tematici e tradizioni narrative attesta, se non altro, la vitalità e le qualità inventive e imprenditoriali della produzione media americana. Qualcuno l'ha definito "uno zucchero filato di dimensioni pantagrueliche", alludendo sia alla dolcezza quasi nauseante dello stile, sempre liricamente esaltato, sia all'abbondanza dell'imbandigione: un romanzo fantascientifico che presenta la città di New York in tre momenti storici distinti, il passato degli anni attorno al 1910, il presente contemporaneo e il futuro degli anni Novanta e che ruota attorno a due protagonisti, il ladro innamorato della tecnica e della bellezza Peter Lake e il cavallo bianco volante, i quali ridiscendono entrambi nella città alla fine del secolo dopo aver trascorso BibliotecaGino Bianco alcuni decenni, presumibilmente congelati, in qualche posto della stratosfera; accanto a questo una narrazione romanzesca, con abbondante uso dell'entrelacement, di eroi cavallereschi che svolgono la loro quete nella giungla di New York attorniata dalla baia e dalle isole o fra i boschi e i laghi Upstate, in mezzo a mostri, fate, fontane e armi magiche e misteriosi eserciti di nemici rozzi e cattivi; accanto a questa una narrazione realistica, modellata strettamente sui romanzi londinesi di Dickens, con visite ai bassifondi, i quartieri dei diseredati, gli orfanotrofi, fra immagini patetiche di infanzia abbandonata e incontri consolanti con personaggi-macchietta; intrecciati con questi, episodi mitologici, fiabeschi, lirici, tragicomici: un po' di Omero accanto a Mary Poppins, Joyce accanto a Walt Disney, la città di Metropolis (sopra e sotto) accanto a quella sognata dai futuristi, quella delle vignette del "New Yorker" accanto a quelle invisibili di Marco Polo e Calvino. Benché la scrittura, incontrollata, tenda a farsi cliché e ridondanza. Fra gli innumerevoli personaggi, provenienti dagli stampi più diversi (il racconto epico classico e il romanzesco arturiano, il folcore germanico rifatto a Hollywood e la commedia d'avanspettacolo americana), spesso indicati con denominazioni simboliche, ce ne sono alcuni abbastanza azzeccati: come la vecchia signora Gamely, che vive nel piccolo villaggio sul lago dei Coheeries e tiene in grembo un gallo come se fosse un gatto, è analfabeta ma ha un vocabolario parlato di una incredibile magica ricchezza e il suo conversare è come un "saltarello pierio" che la rende suSCHEDE/CESERANI blime e incomprensibile; o come il piccolo alpinista californiano Jesse Honey, vestito alla tirolese e attrezzato di tutto punto, maniaco della tecnica, delle invenzioni e degli specifici e gran combinatore di catastrofici guai. La vera misura di Helprin, probabilmente, è quella del racconto, come sanno i lettori del "New Yorker" e delle sue raccolte A Dove of the East (1975) e Ellis Jsland (1981; trad. italiana di A. Dall'Orto col titolo Bianchi pascoli, Frassinelli 1985). Anche nel romanzo, alcuni episodi a sé, in equilibrio fra ironia leggera, lirismo e precisione descrittiva, sono piacevoli. Citerò l'episodio di Peter Lake, entrato di notte nella casa del magnate lsaac Penn per svaligiarne la cassaforte, ma che sente d'improvviso venire il suono di un pianoforte da una delle stanze credute vuote e sorprende la bellissima Beverly, febbricitante, appena uscita da una bagno in piscina, nel salone di musica, che trae dalla tastiera una gran cascata di note, in una scena tipicamente romantica (che testimonia, con la scrittura ridondante e la presenza di tanti luoghi comuni, tutto un gusto). Lo strumento retorico di Helprin è molto ampio e viene da lui utilizzato senza troppi scrupoli e finezze. Accanto, per esempio, a un'immersione astuta e funzionalistica nelle trame narrative e nei giochi a sopresa, ci sono momenti metanarrativi in cui egli discute del tempo, del caso, delle coincidenze. Accanto ai doppi-fondi simbolici (il fattorino del telegrafo che traversa il lago dei Coheeries ghiacciato, simile a Mercurio messaggero degli dei) c'è il gusto della scena mise en abfme (gli emigranti polacchi giunti su un transatlantico a New York e respinti al controllo d'igiene che prendono dalla cabina del capitano il modellino-replica della nave e lo mettono nel mare della baia con sopra il loro bambino, affidandolo alle onde perché entri clandestinamente in America). Lo strumento privilegiato, naturalmente, è la metafora, che compare in una vera orgia sotto tutte le forme, si gonfia spesso in paragone sostenuto, di tipo ironico o lirico, si trasforma in commento intrusivo dell'autore. Citerò, tra le metafore ironiche, questa che ha una gustosa dimensione iconica, a proposito del Canada: "il nome stesso era piatto e freddo come un campo di neve". E tra quelle liriche ed esaltanti, ricorderò la straordinaria corona di omaggi descrittivo-visivi sulla città di New York. Tanta luminosità e lucentezza metaforica si ha il sospetto che serva ad abbagliare il lettore e a cancellare con il suo splendore i 89

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