86 SCHEDE/MADERNA sistente di Epstein, quando si recano a visitare il castello Voltaire di Ferney. All'interno dell'antico edificio, si trovano immersi in un'oscurità totale al centro di un salone, una volta sfarzoso e ora del tutto privo di mobili, venduti poco alla volta dagli attuali proprietari che tengono le imposte gelosamente chiuse perché "ogni mobile ha lasciato sulla stoffa il disegno di com'era" e perché ''la luce, col tempo, potrebbe pareggiare tutto, cancellare l'impronta dei quadri e dei trumeax, rendere la stoffa e le pareti indifferentemente gialle, senza più alcuna traccia" (pag. 113): per sacrosanta gelosia di un segno che rimanga simulacro di una corposità materiale ormai perduta. Non per nulla a casa di Epstein Brahe osserva la "distanza giusta tra i mobili, così giusta che ciascuno sembrava isolato contro pareti bianche o ai margini delle vetrate che dividevano la casa, eppure in relazione con tutti gli altri, e con le piante, con lampade sottili" (pag. 150). Ripopolare il mondo di oggetti significa riuscire a cogliere il sistema di relazioni di sfondo (il "rumore" avrebbe detto in termini informazionali Brahe) che costituisce la contingente realtà sulla quale si muove, fulcro dell'organizzazione e disposizione dello scenario, il personaggio romanzesco come l'uomo d'oggi. Quando Brahe conclude una carrellata descrittiva richiestagli dall'amico scrittore e fornisce con precisione il nome, l'identità o almeno l'aspetto di ciò che vede, dimentica di parlare di se stesso, che pure cade - fisicamente O nel proprio campo visivo. Epstein lo sollecita a completare le sue osservazioni: "Adesso non resta che lei". Sottintendendo una naturale priorità del soggetto senziente rispetto all'ambiente che domina e che di frequente, per cecità egocentrica, non è più neppure in grado di vedere. distratto dall'odierna omologazione organizzata di tutto il reale quotidianamente riproposto come se fosse proiettato su una quinta, Brahe risponde con un'affermazione tautologica: "lo sono io". La replica è precisa: "Però è curioso, uno le chiede di vedere e _leivede una Chevrolet, un battello, un tomahawk, un tagliaerba. Le persone lei le vede solo dopo, e vede soprattutto le loro posizioni nello spazio o quello che fanno o i vestiti o dove sono. Però se uno le chiede di lei, lei pensa subito di essere qualcuno. Non le pare esagerato?" (pag. 57). L'esistenza del singolo individuo si esprime - innanzitutto - nella capacità di avere un'autocoscienza che si può definire come una sospensione intenzionale del soggetto dalla rete di rapporti che lega l'uomo agli altri uomini e al mondo - riacquistando con ciò la capacità di ridare evidenza e corposità al piatto BibliotecaGino Bianco "spettacolo" della contemporaneità planetaria -; solo a questo punto lo sguardo del personaggio riesce a cogliere (e perciò il narratore può raccontare) ciò che vede, e così a valutare le diverse sensazioni legate, per esempio, a un incontro. La tecnica "multifocale" di presentazione del personaggio che Del Giudice adotta fa riferimento a una concezione del reale - e della storia - di questo tipo, ma che insiste molto più sulla cronaca apparentemente banale della quotidianità piuttosto che sulla memoria, sul passato, sulla storia appunto, che ormai non è più rintracciabile se non dopo aver rifondato, almeno, una coscienza del presente. Un incontro "a quattro" rivela già la complessità di una situazione elementare: "c'è stato un ordine nelle presentazioni, nei sorrisi. Riidiger ha fatto un saluto completo alla tedesca (... ); Epstein ha raccolto l'occhiata di Brahe sorridente che scuoteva leggermente la testa; Brahe ha sentito su di sé lo sguardo di Gilda, prolungato, e ha cercato di incontrarlo solo di passaggio, per fermarsi poi allagardenia che lei aveva all'occhiello della giacca: Gilda se ne è accorta e si è chiesta se non fosse successo qualcosa al fiore... " (pag. 83). Sono tutti personaggi privi di una psicologia dispiegata, ma non privi di notevole sensibilità; sono "aperti", soprattutto, verso l'esterno, curiosi e attenti a ogni immagine e avvenimento. Così il narratore, utilizzando un periodare molto sintetico, costituito da brevi sintagmi assertivi, da frequenti punti fermi e da dialoghi incorniciati da un'ossessiva ricorrenza del verbo "dire", con una sapiente alternanza di tempi verbali (con un interessante uso del passato prossimo indicativo), dà vita a una vicenda dai toni freddi e a una prosa di tipo "descrittivo". Una prosa che si struttura in modo elementare e spesso ripetitivo (soprattutto nel dialogato) e che sembra tenti di recuperare una ingenuità perduta - con un piglio ancora una volta "fondamentale"-, un forte sapore "fattuale" inteso come aderenza ostentata a fatti e situazioni. Una specie di fittizio ritorno alle origini della capacità fabulatoria, legata in prima istanza a una dimensione spaziale, referenziale; proprio perciò Epstein ha scritto, lungo la sua carriera, solo romanzi d'avventura. Non manca, in tutto ciò, una forte componente intellettualistica e letteraria: come per Andrea Oe Carlo (l'autore contemporaneo di sicuro più vicino a Del Giudice) vale il richiamo all'opera dell'ultimo Calvino (quello di Paloma,, per intenderci), soprattutto per quanto riguarda il registro stilistico e l'intento speculativo di quella prosa, mentre insieme al nome di Peter Handke val la pena di ricordare, per intero, la sperimentazione del nouveau roman. Forse una scelta tematica inedita (la presenza del coprotagonista Pietro Brahe, fisico alle prese con un esperimento nucleare molto sofisticato, - sullo sfondo il richiamo è al premio Nobel Carlo Rubbia, almeno per l'interesse che la sua figura come la sua attività hanno esercitato su massmedia e pubblico) così emblematicamente legata al presente non basta per superare la crisi del romanzo contemporaneo. Forse la riscoperta a livello microscopico di una "contestualità" intesa astrattamente come insieme di forze e relazione di entità oggettuali trascura esattamente ciò che oggi sembra diventato trasparente: i giochi di potere a ogni livello, la fuorviante spettacolarizzazione della politica, la mancanza di incisività nelle prese di posizione in campo culturale, il tentativo sistematico di rimozione di tutte le tensioni sociali e individuali. Ma Ira Epstein - in queste affermazioni ben vicino a Del Giudice - è almeno consapevole del fatto che "da più di mezzo secolo tutto era cambiato, eppure una straordinaria legge di conservazione del1'immaginario e della percezione riconduceva tutto a come era prima" (pag. 79); perciò, come scrittore, con un'implicita allusione a molta produzione letteraria contemporanea, "lui sapeva che non avrebbe più potuto accucciarsi tra le parole come un animale nella tana" (pag. 81). E così, per la prima volta da tanto tempo, il destino felice di un uomo felice ("sono stato felice, veramente felice, anche nei momenti più terribili" scrive Epstein al suo editore, pag. 27), non ci fa sarcasticamente sorridere. TEMPOALTEMPO Maria Maderna Le prime pagine di La scoperta della lentezza (opera seconda del quarantatreenne tedesco Sten Nadolny - Garzanti, pagg. 326, L. 22.000) ci presentano come personaggio principale un individuo stranamente ottuso, cui mancano prontezza d'azione e presenza di spirito: "un irrimediabile temporeggiatore". Eppure John Franklin -realmente esistito, noto come esploratore artico e scopritore del mitico "passaggio a nordovest" - esprimerà il suo genio nel regno della lentezza, che l'autore esalta come progetto di vita. Fin da bambino John, che si rifiuta di credere che "qualcuno sia migliore soltanto perché fa la stessa cosa più rapidamente", è paziente e assolutamente irremovobile, cal-
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