STORIE NOMIECOSE Luca eterici Pur nella complessiva sciatteria di tutta la più recente narrativa italiana - tanto più l'osservazione vale per i romanzieri cosiddetti "giovani", Tondelli in primis - ed escludendo quella produzione romanzesca che si inserisce più o meno sapientemente nel solco di una letterarietà intesa come appartenenza a u·na tradizione "magistralmente evocata" (Tabucchi, Consolo, Manganelli per esempio), non mi pare si possa ritrovare un uso così insistito di una parola ormai giustamente caduta in disgrazia anche nel colloquiare quotidiano, una parola così vuota e onnicomprensiva come "cosa", che _invece compare con ben motivata frequenza nelle pagine del secondo romanzo di Daniele Del Giudice, Atlante occidentale, (Einaudi, pp. 152, L. 16.000). Tutte queste "cose" vengono nominate con la maggior precisione possibile: "scaffali di ricambi per il vuoto spinto, con tubi isolanti, giunti in lega, giunti rotanti, labirinti, sbarramenti gassosi, valvole di regolazione criogenetica per temperature dell'elio liquido ( ... ) magneti di focalizzazione e magneti di curvatura" (pag. 69). Le frequenti enumerazioni dei più disparati oggetti non appaiono mai in ragione della loro forza mimetica - l'accumulazione come espediente retorico capace di "mimare" la varietà policroma del reale - e neppure per fornire al narratore come al lettore uno strumento che permetta di ordinare e di controllare razionalisticamente la varietà polimorfa dell'universo. Piuttosto, partendo da un punto di vista più ingenuo e più "fondamentale", nominare le "cose" significa prenderne contatto, decretarne e riconoscerne lo statuto di esistenza. Nelle parole di Ira Epstein, coprotagonista del romanzo insieme al giovane fisico Pietro Brahe, "nei manuali c'erano i nomi della natura, i nomi delle cose, la descrizione del loro funzionamento (... ). Ogni manuale era per me un libro di galateo applicato, un romanzo di formazione. Con ogni cosa nuova imparavo anche una nuova nomenclatura. (... ) A me sembrava che la vita delle persone fosse unita a quella delle cose, fosse una lunga storia di sedie e di letti, di scarpe e di valige, di tavoli e di porte, di automobili e aerei e treni e navi e "di cassetti e di scatole, cose che in genere non si vedono, che testano sullo sfondo" (pag. BibliotecaGino Bianco 60). Per tutto ciò gli aerei che popolano il piccolo campo di volo - scenario sul quale il romanzo si apre - sono Zlin e Chessna, SIA! Marchetti o Dornier, Douglas o De Havilland. E così i fiori, le auto o i modelli di locomotori che lo stesso Epstein osserva muoversi - in un piccolo plastico che rappresenta Ginevra, sfondo di parte della vicenda romanzesca - con moto rotatorio lungo l'anello perimetrale della riproduzione in miniatura della città, concentrico a quello sotterraneo nel quale Brahe compie il proprio esperimento di collisione atomica, concentrico all'ampio cerchio che i due, diventati amici, descrivono nel cielo di Echenevex, alle falde del Giura, a bordo di un "Mudry Cup nuovissimo" (pag. 98) appena noleggiato. Sono modellini di "un intercity con carrozze color arancione'', o vecchi convogli '' della Berna-Lotschberg-Sempione, crema o blu", o, ancora, "carrozze panoramiche della ferrovia Mittelthurgau" (pp. 147-148), che richiamano immediatamente il modellino Marklin del locomotore elettrico "Coccodrillo" riprodotto in sovracoperta al volume einaudiano. Ogni cosa, dunque, ha un nome "proprio", che ne salvaguarda la fisionomia e la stessa esistenza oggettiva quando di quella cosa si parli, riferendosi a essa in absentia. Per superare la distrazione cronica che il Una tavola de/l'Atlante di Mercatore, 1606. SCHEDE/CLERICI mondo d'oggi ha imposto a tutti gli uomini contemporanei, diventa necessario nominare ogni oggetto con precisione e appropriatezza, anche quando si abbia a che fare con ambiti di esperienza estranei alle proprie competenze, con un netto rifiuto dei registri linguistici allusivi e metaforici. Quando Brahe spiega il suo esperimento all'amico scrittore, Epstein non ha esitazioni: "No, non così. Così non mi serve a nulla. Ciò di cui lei parla non mi serve ad alcunché, lo sa benissimo. lo voglio che questa differenza si senta. Non capisce? Le cose che ci saranno vengono da lì, e saranno non-cose. Perché vuole che io le immagini come tutto ciò che già c'è, e che sta scomparendo? Perché vuole che io le riceva senza il loro nome, per arbitrario che sia? Perché per ogni cosa che dice manda avanti un gemello, che io già conosco, impedendomi di farmi un'idea dell'altro?" (pp. 104-105). E allora Brahe "per la prima volta parlò a Epstein di ogni cosa chiamando ogni cosa con il proprio nome, la propria sigla, la propria formula" (pag. 105). Ma anche le cose intese nella loro materialità oggettuale sono oggi attaccate, corrose e sbiadite; senza tutti gli oggetti che po- . polano il mondo la vita diventa vuota stasi priva di senso. Vivere assomiglierebbe sempre di più ad un brancolare nel buio, come accade a Brahe e a Gilda, l'affascinante as- .. j, f ;:·. ,., ;-:-'."\ 1:-r-"' -,~1:· ·:~ ',~ ~ ·,.' ..-!, ,,, > I 85
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