78 . DISCUSSIONE/SOLMI nemmeno a lui, di essersi messo a speculare a ruota libera, dall'alto della sua vedetta terzinternazionalista, sulla storia universale del pensiero e della cultura (anche se con risultati, per tanti aspetti, stupefacenti), dimenticando, o, che è lo stesso, delegando completamente al "partito" (e a quale partito!) quel rapporto diretto (e recidendo quel vincolo ombelicale) con la classe operaia che costituisce la sola legittimazione e la sola fonte di alimentazione possibile di un lavoro intellettuale che intenda collocarsi effettivamente in una prospettiva rivoluzionaria e dare un contributo positivo al suo sviluppo. Se non potevo condividere interamente il suo giudizio su quest'ultimo autore, tanto più mi lasciavano perplesso i suoi rapporti - che si venivano però, in quegli anni, allentando, se mai erano stati realmente stretti e consistenti - con Della Volpe e Ìa sua scuola (Lucio Colletti e altri), che, per quanto mi riguarda, tendevo a considerare piuttosto come il fumo negli occhi. Credo che, su questo punto, la legittima reazione contro una certa vulgata gramsciana (o crocio-gramsciana) dello storicismo marxista lo avesse indotto ad avvicinarsi eccessivamente a posizioni come quelle di Della Volpe e di Althusser (anche se non mi ricordo di averlo sentito parlare di quest'ultimo autore), e cioè a un'interpretazione scientifica e sociologizzante del pensiero marxiano. Non oso poi dire nulla degli economisti e dei sociologi anglosassoni (o anche dei polacchi, come Lange) che Raniero conosceva bene, mentre le mie conoscenze in proposito erano allora (e sono rimaste anche in seguito) estremamente vaghe e quasi sempre indirette e di seconda mano. Mi limiterò a sottolineare, a questo proposito, quello che è già stato fatto osservare da altri, e che dovrebbe essere già largamente noto: e cioè la sua capacità - estremamente preziosa - di riconoscere la verità. nelle posizioni degli avversari (senza dimenticare, peraltro, che si trattava di avversari), il loro vantaggio nella presa di coscienza e nell'interpretazione di determinati aspetti, problemi o portati dell'evoluzione storica e sociale; la necessità -da lui sempre affermata e riconosciuta - di imparare dagli avversari, di portarsi alla loro altezza, di mettersi in condizione di batterli sul loro stesso terreno (e cioè sul terreno o al livello in cui i problemi si pongono effettivamente in un determinato stadio dell'evoluzione sociale e storica). Era questo l'atteggiamento che egli assumeva e il metodo che si era proposto di seguire nella sua attività di dirigente e di organizzatore culturale, e che non cessava di raccomandare a tutti i suoi compagni e collaboratori. Per quanto riguarda l'attualità politica immediata, ricordo un suo giudizio su Kruscev, in cui, dopo aver avanzato tutte le riserve possibili e immaginabili sulla grossolanità e sulla rudezza dell'uomo e del suo stile politico, concludeva tuttavia col riconoscimento della spinta di fondo che si era espressa attraverso la sua azione, dell'iniziativa coraggiosa di cui era stato protagonista, e che testimoniava in lui un rapporto residuo con la tradizione rivoluzionaria, a cui cercava, per quanto vanamente, di ricollegarsi; egli aveva saputo esprimere, almeno per un momento, la voce più genuina del popolo russo, o di quella parte di esso che aveva vissuto come protagonista il dramma della rivoluzione. Ricostruisco, naturalmente a distanza di tempo, e può darsi che attribuisca a Raniero giudizi o sfumature che non erano esattamente i suoi: ma credo che fosse questa, nelle grandi linee, la sostanza delle sue parole. Ricordo l'attenzione con cui seguiva gli sviluppi della disputa cino-sovietica (su cui contribuì a preparare il volume edito da Einaudi a cura di Enrica Collotti Pischel e Paolo Calzini), e in particolare quei motivi, che cominciarono ad affacciarsi ad un certo punto (egli fu certamente fra i primi ad avvertirli e a rallegrarsene immensamente: lo ricordo letteralmente eccitato ed entusiasta dopo la lettura di uno degli ultimi documenti di parte cinese), e che andavano al di là della BibliotecaGino Bianco questione della convivenza pacifica e della inevitabilità o meno della guerra nucleare, e anche dell'attegiamento da tenere e dell'appoggio da dare alle rivoluzioni o ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo, ma investivano ormai direttamente le stesse strutture politiche e sociali interne dell'Unione Sovietica e degli altri paesi socialisti, e tendevano a rimetterle per la prima volta in questione: un primo, ancora remoto preludio della "rivoluzione culturale" che sarebbe divampata di lì a pochi anni e che avrebbe costituito uno degli ingredienti essenziali dell'atmosfera rivoluzionaria del 1968. (Ma si veda, per questo, l'articolo pubblicato sul "Manifesto" da Edoarda Masi, che, su questo punto in particolare, era vicinissima a lui, e da cui egli attingeva una buona parte delle sue conoscenze.) Potrei continuare ancora per molto tempo, sulla base di ricordi molto fragili, che non ho mai pensato di mettere prima sulla carta. Vorrei concludere con una considerazione di carattere più generale, che può servire anche da attenuante per l'inadeguatezza di queste pagine al compito che mi ero prefisso. Ripensare al ruolo svolto da Raniero Panzieri, al carattere modestamente, umilmente carismatico della sua figura (di cui era, d'altra parte, ben consapevole), significa rimeditare tutta la problematica del marxismo e della rivoluzione, dello sviluppo e dello stato attuale del movimento operaio, del rapporto fra il socialismo e i nuovi movimenti di liberazione, fra la democrazia (intesa come effettiva partecipazione di tutti alla soluzione dei problemi comuni, e come realizzazione di una effettiva eguaglianza di condizioni e di opportunità per tutti gli esseri umani) e la pace (intesa come prospettiva indefinita di uno sviluppo che escluda le alternative catastrofiche della guerra nucleare, della dilapidazione delle risorse fisiche e materiali, dello sconvolgimento o del deterioramento progressivo dell'equilibrio ecologico, e così via). Significa porsi il problema di quanto, nella tradizione socialista e marxista, è tuttora pienamente valido, e può fornire ancora i lineamenti essenziali di una concezione complessiva della società e del mondo, di una disciplina morale e di una dottrina di vita, e di quelli che possono essere stati eventualmente i suoi limiti ideologici e teorici, i suoi fattori di equivoco e le sue cause potenziali di degenerazione. Un compito che, oggi, ben pochi sembrano disposti ad affrontare, nel clima stagnante e percorso da torbide tentazioni irrazionalistiche, da false reviviscenze metafisiche e religiose, dominato da un sentimento universalmente diffuso di stanchezza e di rassegnazione. So che le cose, per fortuna, non stanno esattamente così, che il discorso nçm vale per tutti, che ai livelli decisivi, che sono quelli di base, nuove forze si ricompongono e si coagulano continuamente, dando vita a movimenti che possono assumere, eccezionalmente, un carattere collettivo e di massa, come è avvenuto per la mobilitazione contro l'installazione dei missili e per il movimento autogestito dei consigli di fabbrica contro il decreto Craxi per l'amputazione della scala mobile. Ma ciò che mi sembra non si possa fare a meno di constatare è una crisi e una soluzione di continuità nella coscienza storica e culturale, una incapacità di fare i conti con l'accaduto, di riprenderlo e ricuperarlo in una prospettiva coerente, di comprensione del pàssato e di anticipazione dell'avvenire: che è sempre un indizio preoccupante di immaturità e di impreparazione, un segnale di allarme a cui non possiamo fare a meno di porgere ascolto, e a cui dobbiamo cercare, nei limiti delle nostre forze, di cominciare a dare una risposta adeguata sul piano della riflessione storica, della ricerca teorica e dell'impegno sociale e politico. (3 marzo 1985. Questo testo era stato previsto per "Il Manifesto" del 15 XI 1988, per il ventennale della morte di Panzieri).
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