Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

svolta, se non vado errato, nella primavera del 1964. Ero stato a Milano, dove avevo fatto visita ai redattori della casa editrice Feltrinelli, non ricordo bene per quale motivo. Gli avevo riferito, o avevo cominciato a riferirgli, dell'esito dei miei colloqui, quando egli mi interruppe con questo strano·inciso, non ricordo se preceduto da qualche altro preliminare, ma che mi suonò, non so come, naturalissimo: "A che punto sono?" Ricordo che rimasi interdetto, e che gli chiesi di spiegarsi meglio, poiché non avevo capito bene che cosa intendesse. Egli scherzò, alla sua maniera, ridendo, e mi prese in giro dicendomi che si stupiva che io, traduttore di Benjamin, non afferrassi al volo il senso di una domanda come quella. Il fatto è che, per lui, tutti noi - intellettuali più o meno politicizzati,· ma, in un certo senso, "tutti" in generale - stavamo percorrendo, anche senza rendercene conto, una parabola che avrebbe dovuto condurci inevitabilmente, prima o poi, ad una rivelazione, ad una presa di coscienza, che ci avrebbe mostrato l'infondatezza delle nostre persuasioni più o meno rassegnate e l'inconsistenza della nostra percezione alienata delle cose, per dischiuderci la prospettiva della rivoluzione necessaria e imminente; ed egli si informava, con quelle parole gettate lì , dando tutto ciò come implicito e sottinteso, del punto di quella traiettoria invisibile a cui si trovavano le persone che avevo incontrato. Avevano fatto qualche passo avanti? Avevano cominciato a "capire" qualcosa? Così, allegramente e alla maniera socratica, lasciando che fosse l'interlocutore a completare il senso del discorso, sapendolo già parzialmente preparato a questo lavoro di comprensione e di integrazione, egli ci comunicava quel sentimento di attesa, faceva crollare nel nostro interno, senza che quasi ce ne avvedessimo, le costruzioni ausiliarie della nostra viltà o della nostra pigrizia, stabiliva collegamenti e apriva intuizioni improvvise, ci aiutava ad essere e a ritrovare noi stessi, ci infondeva di nuovo la speranza di poter ricuperare quello che avevamo perduto o in cui non avevamo creduto abbastanza intensamente e costantemente, ci faceva provare, nello stesso tempo, un sentimento di mortificazione (poiché sapeva essere molto duro, a volte, e sempre in un modo per cui, tutto ben considerato e dopo adeguato ripensamento, si era costretti a dargli ragione) e uno slancio opposto e complementare. direi quasi un sussulto di felicità per essere ancora capaci di comprendere e di rendersi conto di tutto questo, per non essere ancora induriti al punto di essere definitivamente inaccessibili a questo genere di conoscenze. Raniero era veramente, da questo punto di vista, un "pescatore di anime", un perfetto conoscitore di uomini, che sapeva valutare, con una perspicacia e un'esattezza sconcertante, le disponibilità potenziali, le resistenze, gli effetti di pregresse involuzioni o dispersioni, le cicatrici e le zone morte del carattere e della sensibilità di ciascuno dei suoi interlocutori, ma anche, come ho detto, le possibilità di liberazione, di ricupero e di ripresa: ciò che faceva di lui, per chi lo conosceva ed era in grado di apprezzarlo, un punto di riferimento essenziale e indispensabile, uno strumento sicuro di verifica e di controllo, una guida nella ricerca del cammino che ciascuno deve sforzarsi di trovare o di ritrovare. Sono sicuro che quello che ho scritto non costituisce la proiezione o la generalizzazione di un'esperienza strettamente personale (anche se, certamente, l'influenza di Raniero deve essersi esercitata in forme diverse, e la sua figura deve esserci presentata in modo diverso, ai suoi amici e seguaci della generazione più giovane, che non aveva ancora fatto a tempo a passare attraverso le peripezie e le confusioni di quelli che, come me, si erano affacciati alle soglie della vita politica e intellettuale all'indomani della Liberazione), e che molti, se leggeranno queste righe, non avranno difficoltà a mettersi nei panni e a rivivere l'esperienza di chi le ha scritte. BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE/SOLMI E mi viene fatto di pensare, per inciso, a quanto sia o torni ad essere attuale, da questo punto di vista, la figura di Raniero, e la funzione che egli ha svolto allora, negli anni che stiamo attraversando, quando una greve cappa di inerzia e di rassegnazione, un clima soffocante di ottusità e di atonia, sembra quasi paralizzare noi stessi e la maggior parte dei nostri conoscenti: al punto da farci desiderare che qualcuno possa tornare, come lui, a destarci dal nostro sonno pesante, a farci sentire la scossa elettrica di una corrente vitale, a risvegliare in noi le energie sopite e la coscienza di ciò che sappiamo e ci sforziamo invano di dimenticare. Ho parlato dell'apertura intellettuale di Raniero, e vorrei fornire alcuni elementi che potrebbero essere di qualche utilità agli studiosi che volessero fare oggetto di analisi e di ricostruzione la sua figura e la sua attività nel quadro complessivo di quegli anni. Ricordo i suoi giudizi sui vari movimenti dell'estrema sinistra di allora, con cui era naturalmente in contatto e verso i quali non nutriva -com'è ovvio - alcuna preclusione pregiudiziale, ma di cui sapeva cogliere, con intuito sicuro, gli elementi di sclerosi e di debolezza: sui trotzkjsti, a cui rimproverava il loro schematismo e di cui segnalava a volte, la "matrice piccolo-borghese" (ciò che, ovviamente, non aveva nulla a che fare coi luoghi comuni e con le volgarità della propaganda staliniana, ma intendeva essere una definizione psicologica e sociale di una mentalità e di un atteggiamento specifico; Raniero era molto amico di Livio Maitan e si incontrava e discuteva frequentemente con lui); sul gruppo di "Socialisme ou barbarie" in Francia (che aveva perfettamente ragione, ma aveva il grave difetto di ripetere sempre le stesse cose - difetto capitale per Raniero - e di non "mordere" sulla realtà); sui neomarxisti americani (Huberman, Baran e Sweezy), di cui apprezzava le capacità di analisi incisiva e di visione globale delle tendenze di sviluppo e delle contraddizioni storiche del capitalismo mondiale, ma a cui mancava, a suo dire, l'elemento soggettivo, il fattore su cui far leva, e cioè, ancora una volta, il contatto diretto con la classe operaia nazionale, un rapporto di interazione e di scambio attivo con essa (per cui essi costituivano, in fin dei conti, un gruppo di intellettuali, estremamente rappresentativo sul piano teorico, ma che non era l'espressione di un movimento reale in corso di sviluppo all'interno del paese). Per quanto riguarda il dibattito propriamente filosofico sul marxismo, non posso certo dire che le nostre posizioni collimassero in tutto e per tutto, e che potessi condividere senz'altro tutte le sue opinioni. Ricordo i-suoi giudizi su Adorno, che aveva letto e di cui aveva apprezzato, a suo tempo, la novità e l'originalità dell'approccio, la profondità e la genialità degli spunti critici, ma che giudicava - dal suo punto di vista - inutile ai fini della costruzione di un movimento rivoluzionario di lotta per la sua chiusura fondamentale e pregiudiziale ad ogni istanza di questo tipo; aggiungerò che Raniero, appassionato e profondo conoscitore di musica, apprezzava Adorno anche come musicologo, un lato, questo, del suo pensiero e della sua attività che mi era sempre rimasto fondamentalmente estraneo; il giudizio di Raniero mi confermò nella convinzione che a mia volta mi ero venuto formando, anche in seguito al soggiorno che avevo fatto a Francoforte negli anni 1956 e 1957 (senza che, con questo, evidentemente, voglia addebitargli la responsabilità - che mi è stata rinfacciata più tardi - di non essermi più occupato di questo autore, di averlo "abbandonato" e messo da parte); su Lukàcs, che mi ricordo di averlo sentito definire, una volta, forse a proposito di Storia e coscienza di classe, "idealistico e fumoso", anche se, com'è ovvio, nel contesto di una valutazione complessivamente positiva del grande contributo da lui dato agli sviluppi della cultura marxista; Raniero non poteva perdonare, 77

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