Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

ILGESTOESSENZIALE Nadine Gordimer r:, uando, all'età di nove o dieci anni, cominciai a seri- ~ vere, lo feci con quella che, come dovevo capire in seguito, era la sola vera innocenza: un atto privo di responsabilità. Ero sola. Non sapevo come la mia poesia o la mia storia sgorgassero da me. Non erano dirette a nessuno, non erano lette da nessuno. La responsabilità è ciò che ci attende oltre l'Eden della creatività. Non avrei mai immaginato che il più solitario e il più profondamente incantevole dei segreti - la spinta a costruire con le parole - sarebbe diventata una vocazione della quale io e quelli come me saremmo stati chiamati a render conto dal mondo e da una costante compagna, la coscienziosa autoconsapevolezza. L'atto creativo non è puro. La storia lo insegna. L'ideologia lo chiede. La società lo esige. Lo scrittore perde il suo Eden, scrive per essere letto, e infine capisce che deve dar conto di ciò che fa. Lo scrittore viene ritenuto responsabile, e questa frase di vago sapore legale è sinistramente accurata; poiché lo scrittore non deve solo assumersi la responsabilità delle varie interpretazioni del significato del suo lavoro, ma, ancor prima di cominciare, viene "fermato" dalle pressioni esercitate su di lui da moralità diverse: artistica, linguistica, ideologica, nazionale, politica e religiosa. Apprende che l'atto c,reativo non è puro nel momento stesso in cui si va formando nel suo cervello. Equesto atto comporta già una responsabilità congenita per qualcosa che ha preceduto conoscenza e volontà: per la classe, definita in termini genetici, ambientali, sociali ed economici nel momento in cui i suoi genitori lo hanno messo al mondo. Roland Barthes, ne L'anno zero della scrittura, ha detto che la lingua è "un corpus di regole e abitudini comuni a tutti gli scrittori di un dato periodo". Ha scritto anche che l' "impresa" di uno scrittore - il suo lavoro - è il suo "gesto essenziale come essere sociale". Tra queste due affermazioni ho trovato il mio argomento, che ne costituisce il momento di tensione e di legame: la responsabilità dello scrittore. La lingua, in quanto trasformazione di pensiero nella parola scritta, non è un corpus, bensì il corpus comune a tutti gli scrittori. Dal corpus della lingua, da quella corporazione condivisa con gli altri scrittori, lo scrittore modella il suo lavoro, quello che poi, nell'atto di essere modellato, diventa il suo "gesto essenziale come essere sociale". Creato nel crogiolo comune della lingua, quel gesto essenziale è individuale, ma nel compierlo lo scrittore si stacca dalla collettività del corpus: entra in ciò che è condiviso da tutta la società, nel mondo di altri esseri che non sono scrittori. Egli e gli altri scrittori si ritrovano immediatamente isolati l'uno dall'altro dai diversi concetti che le singole società hanno su ciò che costituisce il gesto essenziale dello scrittore come essere sociale. Se si confronta ciò che ci si aspetta da loro, gli scrittori spesso hanno ben poco in comune. Nessuna responsabilità derivante dalla status di scrittore come essere sociale potrebbe imporre a Saul Bellow, Kurt Vonnegut, Susan Sontag, ToComizio a Soweto (foto di Sarah Webb Farre/1/Sygma/ag. Grazia Neri). BibliotecaGino Bianco ni Morrison o John Berger di scrivere su un argomento che potrebbe ridurli al silenzio con la censura, costringerli all'esilio o farli finire in prigione. Ma nell'Unione Sovietica, in Sudafrica, in Iran, in Vietnam, a Taiwan, in alcuni paesi del- !' America Latina e in altri paesi questo è proprio il genere di richiesta imposta dalla responsabilità del significato sociale dell'essere scrittore: una duplice richiesta, in primo luogo da parte degli oppressi che gli chiedono di farsi loro portavoce; e in secondo luogo, da parte dello stato che commina una punizione allo scrittore proprio per aver assunto la funzione di portavoce. Viceversa, è inconcepibile che una Molly Keane, o qualsiasi altro rappresentante della scuola gotica di recente scoperta da acuti critici e lettori negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, possano venir interpretati o presi sul serio in termini di quel "gesto essenziale come essere sociale" richiesto nell'Unione Sovietica o in Sudafrica, anche se vi risiedessero. E, se questo fosse il caso, verrebbero tenuti in considerazione ancor minore da critici e lettori acuti negli Stati Uniti o in Gran Bretagna: anche chi vive al riparo dagli arresti nel cuore della notte e dalle celle d'isolamento che sono il tetro condominio dell'oriente e dell'occidente, esige qualcosa dallo scrittore. Per costoro, il gesto essenziale dello scrittore come essere sociale consiste nel correre rischi che quegli stessi critici e lettori forse non correrebbero. Questa esigenza provoca strane e spiacevoli storture nelle personalità di alcuni di questi individui che vivono al sicuro. Qualsiasi scrittore di un paese in rivolta potrà darmi ragione. All'estero, spesso gli intervistatori ti guardano delusi: lei è qui, e non in prigione nel suo paese. E visto che non è in cella ... come mai non c'è? Ah ... ciò significa forse che non ha scritto il libro che avrebbe dovuto scrivere? Vi immaginate questo genere di inquisizione moralisticheggiante rivolto a John Updike per non aver scelto come argomento dei suoi libri il trauma dell'America durante la guerra in Vietnam? 1 E poi c'è un'altra punta di sospetto. li recensore cli Something Out There, una mia recente raccolta di racconti, ha scritto sul "Daily Telegraph" che senza dubbio io esageravo: se il mio paese era davvero un posto in cui accadevano cose del genere, come mai io potevo descriverle? E poi c'è la distorsione autoindotta, che nasce dalla proiezione dei sogni che chi sta a casa fa sullo scrittore di provenienza esotica: il giornalista che di uno scrittore che sa che, nel suo paese, la penna non è certo un'arma più potente della spada, fa un finto eroe. l!l na cosa è chiara: viviamo in un periodo in cui pochi possono sostenere il valore assoluto di uno scrittore senza inserirlo in un contesto di responsabilità. L'esilio come stile del genio non esiste più. Al posto di Joyce abbiamo dei frammenti di opere che appaiono nell' lndex on Censorship. Sono i brandelli delle letterature soppresse, tradotti da una babele di lingue; sono le grida soffocate dei veri esiliati, non di coloro che hanno rifiutato il loro paese, ma di chi ne è

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