SVAGHISENILI Silvio Guarnieri Il "caso Guarnieri" C'è a Feltre, in Italia, uno scrittore di nome Silvio Guarnieri. Da pochi anni (da quando ha lasciato il suo lavoro di docente universitario a Pisa) egli ha deciso di ritirarsi definitivamente nella città natale che è un po' il luogo deputato della sua scrittura: a Pisa Silvio Guam ieri insegnava, a Feltre scrive; e quasi sempre su Feltre e di Feltre, come luogo della sua vita e di vite altrui delle quali egli è stato testimone, essendo una caratteristica della sua narrazione la scrupolosa fedeltà alle esperienze che ne stanno all'origine. Silvio non può raccontare se non di cose che gli siano successe, di persone che abbia conosciute, salvo qualche dissimulata mascheratura, così per discrezione, per un innato senso di rispetto verso gli altri. Si vedano, per riscontro, le prose e i racconti dei due libri (Carattere degli italiani e Utopia e realtà) apparsi rispettivamente nel 1948 e nel 1955presso Einaudi, o le Cronache feltrine (Neri Pozza, 1969)delle quali ideale continuazione o complemento sta per uscire presso Ber/ani Storia minore: "un volume" precisa egli stesso "che non so se sia di narrativa o di storia... ed è sulla storia di Feltre ricostruita per aneddoti ricuperati dalla testimonianza diretta delle persone, duecento anni di una storia vista dalla parte di chi sta sotto la storia ed appena talvolta si affaccia alla storia maggiore". Ma l'esempio forse più indicativo nel senso di questa sua religione del reale dovrebqe venirci dal libro al quale "da almeno venticinque anni" Silvio Guarnieri sta lavorando e del quale i suoi amici (come Andrea Zanzotto in primis, e anche il sottoscritto) hanno seguito l'inquieta ma sicura crescitafino al capitolo conclusivo a cui appartengono le pagine qui pubblicate: si chiama, questo libro, Lavori d'autunno e riflette nel suo "tolstojano" fluire non soltanto i fatti della vita dell'autore e del suo rapporto con lepersone e gli avvenimenti, ma anche una fede nel narrare e nel narrato (nella cosa-da-dire) che mi sembra, nel senso etico-estetico, un tratto distintivo dello scrittore e un segno di persistente giovinezza per uno che è nato nel 1910. Io scrivo queste note per avvertire che esiste, nella letteratura italiana attuale, un "caso Guarnieri": il caso, cioè, di uno scrittore che, pur avendo vissuto in prima persona le situazioni più tipiche del nostro Novecento (dagli anni fiorentini di "So/aria" e dell'amicizia con Montale e Vittorini all'assidua attenzione che, come critico, egli ha rivolto agli sviluppi del dopoguerra immediato e alla maturazione della poesia oggi adulta), si sorprende oggi in una condizione di immeritato oblìo, per la sola colpa (/orse) di non essersi mai troppo preoccupato di amministrare un "consenso" intorno all'opera sua. O scriveva, o insegnava, o lavorava per far conoscere la cultura italiana all'estero, o (come continua a fare) dedicava serate e serate ai suoi impegni di militante comunista e di consigliere comunale a Pisa o a Feltre: tutto, insomma, tranne che il trafficare, l'armeggiare del letterato qualunque. E intanto si accumulavano nei cassetti le pagine, sicché ad un tratto, quando egli ha deciso di organizzare il consuntivo del suo lavoro di scrittore, Silvio Guarnieri si è dovuto accorgere, con un amaro desencanto quasi da adolescente, che esiste un 'industria editoriale dove dei co_mpetentisignori stabiliscono se il mercato "tira" o non "tira", decidono ciò che "va" e ciò che non "va", chi "conta" e chi non "conta", chi "serve" e chi no. L'opera di Guarnieri deve quasi sicuramente appartenere alla categoria di ciò che non "va", almeno a giudicare dalle difficoltà che il voluminoso dattiloscritto di Lavori d'autunno ha già incontrato nei primi tentativi compiuti dall'Autore per la pubblicazione. C'è da pensare che egli sia vittima di quello strano fenomeno (pertinente alla sfera, più che della critica, della sociologia letteraria) per cui si stabiliscono misteriosamente alcune fasce BibliotecaGino Bianco privilegiate e altre no, alcune maggioritarie e altre minoritarie, alcune egemoni e altre da tenersi ai margini: così accade (e la storia letterariapuò dimostrarlo) che si determinino, a breve e medio termine, certe effimere "fortune" o "sfortune" delle quali però non sempre il tempo riesce a fare giustizia. E dunque può succedere che uno scrittore di settantacinque anni, nel licenziare una ristampa anastatica di una Autobiografia giovanile, in origine stampata nel 1941a Timisoara in Romania (dove egli diresse, tra il 1938 e il 1948, l'Istituto di Cultura Italiana), sia indotto ad accompagnarla con una lunga premessa dove troviamo, a conclusione di una scrupolosa relazione su ciò che ha fatto e sta facendo, queste parole di conclusione, drammatiche e sconcertanti se si pensa alla statura intellettuale e morale della persona che si vede o si sente costretta a scriverle quasi come un pubblico appello rivolto allafrettolosa disattenzione generale: " ... la presente ristampa ha soprattutto il valore di una proposta, di un invito. Poiché io spero che da essa mi venga offerta una nuova possibilità, spero che da quanti leggeranno questo volume nella sua prima versione, dagli amici lettori ma anche dagli amici critici, mi venga quella sollecitazione, mi venga quella indicazione che valgano infine a far entrare questa mia Autobiografia, nella sua integrità, nel corso consueto che oggi compie qualunque libro di un qualche valore, di un qualche interesse. Solo cosi: mi pare, la mia persona - il mio esserescrittore e il mio essere uomo -potrà acquistare una completa pienezza, essere considerata ed accettata interamente per quello che è stata e che è; solo cosi: mi sembra, potrà essere superata quella considerazione di anomalia - come un caso un po' eccezionale, in ogni modo fuori da ogni gruppo o corrente letterari - sotto la quale tante volte sono stato compreso; solo cosìpotrò entrare afar parte della storia della nostra narrativa del Novecento con un posto di maggiore o minore spicco, per quel che valgo e che merito". Quando mi era arrivato il libro, la ristampa (appunto) anastatica di questa Autobiografia giovanile di anonimo scrittore contemporaneo, mi ero permesso di rimproverare amichevolmente a Silvio l'eccesso di sincerità e forse di passionalità che credevo di avvertire nelle sue parole. Ma non era un "eccesso", era l'esatta misura di una realtà culturale che ormai con quasi sistematica frequenza nega agli scrittori che (come Guarnieri) scrivono per dire e per costruire l'accesso al suo fantomatico e labile Castello. Già, il Castello, proprio quello di Kafka, mi vien fatto di pensare in questo momento. E non posso, anche a proposito di Silvio, non pensare alle parole che sbarrano la strada all'agrimensore K.: "Lei non è del Castello, non è del paese, Lei non è niente". Lui, K., "è un uomo di buona volontà" commenta Hannah Arendt in un suo splendido saggio; "non chiede mai nulla più del giusto, ma non è neanche disposto ad accontentarsi di meno" proprio perché il minimo che egli chiede "è proprio per la sua semplice essenzialità il progetto più grande e più difficile cui un uomo possa aspirare". E qui, naturalmente, non si tratta di un "caso letterario"; ma un "caso letterario" è pur sempre anche il caso di ùn uomo. Giovanni Giudici
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