44 Fukuoka, Giappone (foto di Saul Shapiro). BibliotecaGino Bianco ta". È solo teatro, nel senso abietto o "artistico" di questa parola. Questo rapporto di accompagnamento può durare più o meno a lungo. La sua durata dipende dal tempo necessario per risvegliare nell'altro le energie che gli sono proprie. Poi bisogna allontanarsi. Adesso è l'assenza che accompagna. È il momento quando chi è rimasto solo deve inventare il proprio cammino, personalizzare l'eredità ricevuta. Nella tradizione orientale, questo contare sulle proprie forze viene così descritto: superare il maestro salendogli sulle spalle. E così facendo, manifestare o venire meno all'ethos appreso. P.G. In Italia si è assistito a uno strano fenomeno nei confronti del teatro, il cui aspetto quantitativo è certamente peculiare, se non originale. Ma non vale sottolineare tanto l'incremento della sua diffusione e consumo, la proliferazione dei festival estivi, il rafforzamento e il decentramento delle stagioni tradizionali, le rinnovate fioriture di gruppi e iniziative sempre meno "di base", l'apertura di nuovi fortunati generi e mercati in direzione scolastica o giovanile. Vale ricapitolare tutto questo interesse e successo nella constatazione che il teatro - prima o senza mutamenti di strutture e di linguaggio - è complessivamente rientrato nel territorio e nella politica dell'industria culturale (secondo alcuni addirittura nella sezione "mass media"), per una sorta di ingiustificata promozione sul campo. Senza che sia stata programmata o ultimata una sua reale trasformazione, magari di là da venire, il sociologo prima, quindi il teatrologo - dietro gli ordini e le ordinazioni del politico - hanno deliberato o accettato il suo ingresso nell'onnicomprensivo mercato dei consumi culturali. -È stata la ovvia"ratifica di un inevitabile dato di fatto, ovvero una anticipata e forzata definizione di un fenomeno non ancora avvenuto? È stata la salvezza di un mezzo e di un linguaggio altrimenti superato o annullato dalla modernissima concorrenza, ovvero la affrettata integrazione di un ambito e di una modalità artistica ancora potenzialmente alter-· nativa o disfunzionale verso la nuova totalizzante forma di organizzazione della cultura? Certo è che, nonostante le numerose soddisfatte svalutazioni di quanti si sono fin qui rallegrati della sua ammissione e sottomissione al sempre più vasto e indistinto mercato culturale (nonostante le recenti ed entusiastiche adesioni soprattutto da parte dei piccoli e giovani produttori ed esercenti), il teatro colleziona ancora qualche ultima e importante "differenza" rispetto al "resto" dell'industria culturale. Se non fosse per la condiscendenza e il polimorfismo di quest'ultima, basterebbe la constatazione della sua innegabile impotenza a superare lo stadio "artigianale". Resterebbe infine ancora valida la sua ontologica difficoltà alla riproduzione in serie, sia pure controbattuta dal tentativo di distribuire e vendere l'astrazione complessiva e generica del "teatro", piuttosto che il singolo, particolare e concreto spettacolo (per tacere dell'irripetibile "evento"). Al posto di ima accertata e compiuta trasformazione, c'è dunque una guerra - politica e culturale - in atto. Ma si può e si deve ancora credere che, se appena ieri la sua quantità "povera" e la sua qualità di "relazione" lo hanno posto al centro di un movimento culturale alternativo, le sue differenze sono ancora tali da mettere il teatro in una sorta di "area della possibilità" della politica culturale. A fronte della enorme zona nella quale l'esercizio di una diretta partecipazione o lo spazio di un libero e accessibile dibattito, sono senz'altro proibiti ai più. Anzi, probabilmente, di questa "area" il teatro dovrebbe essere ancora una volta il centro, il suo modello teorico o forse la sua prima unità produttiva. A confortare questa possibilità o questa differenza ancora una volta concorrono le' poche volontarie dimostrazioni di gruppi come l'Odin, insieme alle molte involontarie testimonianze che il teatro concede, malgré soi. Se questa ipotesi è azzardata, ma il suo quadro di riferimento ha senso, da un lato il consumatore di teatro vive una fase di esperienze certamente degradate da quando si nominava spettatore, dall'altra il produttore di teatro è costretto a misurarsi o subire la nuova collocazione del suo lavoro e del suo prodotto nel nuovo quadro, largo e aggiornato, ma non per questo meno condizionante la direzione dei suoi esperimenti o il suo livello di senso. Ma non è importante discutere questa schematica visione, perché l'accenno a un livello di macro-sociologia dello spettacolo può solo contribuire alla descrizione climatica. Ci sono risposte di adattamento e di complicità da parte del sistema sociale e delle sue istituzioni al "grande freddo". Ci saranno allora anche nuove consapevolezze e nuove responsabilità - anche fuori dei confini del lavoro teatrale - da parte di persone e di gruppi che non hanno mai interrotto la ricerca della possibilità e della differenza del teatro. Che dunque hanno accumulato su di sé, anche solo per questo, attese e doveri particolari, fino a una estensione esagerata, perché pari agli effetti o alle influenze del proprio lavoro. Chi contribuisce, sia pure per ruolo o a partire da un ruolo, ad animare la vita culturale, a orientare singole o collettive prese di coscienza, si rende "responsabile" per candidatura. E il discorso vale per molti - dagli uomini di teatro agli insegnanti -, ma per ciascuno secondo la misura assegnata o conquistata. Eugenio Barba. Il teatro è relazione. Più questa relazione è sentita, profonda, personalizzata, più aumenta la sensazione che ciò che si fa è necessario all'altro. Tra gli spettatori vi sono due gruppi a me molto vicini: quelli che stanno talmente indietro nel tempo da sembrare fantasmi e quelli che stanno talmente avanti nel
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