42 Tage Larsen in li Vangelodi 0xyrhinco, 1985 (foto Giacomelli). BibliotecaGino Bianco festare in azione diretta, verso l'esterno. Ogni giorno si è circuiti dalla minaccia sorniona del congelamento. E appena si esce dalla rozza e spessa corteccia che protegge la linfa, si diventa un bellissimo zampillo, esteticamente riuscito forse, ma gelato e immobile, sterilizzato da ogni germe di vita. P.G. Il libretto dello spettacolo Il Vangelo di Oxyrhyncus termina con queste parole: "Molte cose in questo mondo stanno dritte e vivono finché le loro parti interiori restano nascoste, ma quando vengono allo scoperto, muoiono. Infatti, finché le viscere dell'uomo sono nascoste, l'uomo è vivo. Ma se le sue viscere sono esposte ed escono da lui, l'uomo muore. Così pure è dell'albero: finché le sue radici sono nascoste fiorisce e cresce. Ma se le radici sono tratte alla luce, l'albero muore. Così è di tutto ciò che è nel mondo, sia per ciò che è nel mondo, sia per ciò che è nascosto, che per ciò che è mostrato." Capita intanto spesso di vedere il contrario. Cose e persone che stanno in piedi sorrette magari da fili, che vivono interamente in superficie senza niente di profondo e dunque di nascosto. A ben guardare non sono "vive", piuttosto sembrano le "mummie" di cui si parlava. Ma se questa è una facile battuta di smentita che si può azzardare osservando il sociale, anche nello specifico del teatro è capitato di predicare e di praticare il contrario: mi riferisco ai numerosi esempi di facilità festosa con la quale si invitano i singoli e le masse a tirar fuori le viscere espressive della propria creatività (contemporaneamente allo scavo disordinato e talvolta contraffatto delle proprie radici, al fine di riproporre folklore turistico e "morto", al posto del pesante fastidio della storia). C'è stato un periodo in cui l'eccessiva liberalizzazione di una cultura dell'attore ha accompagnato o servito una pericolosa ideologia dello spettacolo. Anche questo periodo ci sembra tutt'altro che concluso, e inoltre assai poco analizzato e valùtato per quelli che sono ormai i suoi indelebili effetti nel sociale, oltre che nel "teatrale". Quantomeno per esempio occorrerebbe cominciare a distinguere tra i mille protagonismi e interventi, quelli che hanno una storia di ricerca del proprio senso e quelli che hanno seguito la moda dell'invenzione di una propria immagine. Per capire e non per dare giudizi. Certamente in questi vent'anni l'Odin Teatret ed Eugenio Barba hanno attraversato non soltanto un periodo di tempo, ma anche uno spazio abitato e attento. In Italia, forse, affollato e avido. Né si può ignorare la coincidenza - mai casuale - delle "mode", o la loro inevitabile coda, o anche i loro indiscutibili benefici effetti sul clima (aumento della curiosità, attenzione, circolazione ... ). Soltanto segnalare il paradosso di un gruppo e di una atti- · vità di teatro e per il teatro, che ha rischiato, perfino senza saperlo, di essere assunta e dilatata come una moda e magari sta rischiando di essere "superata" senza scontro o confronto, ma per la normale dinamica delle correnti culturali nell'universo dei consumi. Qualche volta è difficile davvero "mantenersi fuori". Ci vuole molta forza e determinazione, soprattutto quando i propri interessi e gli indirizzi del proprio lavoro, continuano a correre nella direzione dell'incontro nella ''terra di nessuno", del "baratto culturale", della solidarietà e dell'aiuto economico verso teatri più poveri, di paesi più difficili. Soprattutto quando - al di fuori dei confini del gruppo - Barba e i suoi compagni sono da tempo instancabili produttori di attività e di progetti di pedagogia teatrale, l'aspetto più inflazionato e frainteso dell'attuale ridente panorama di consumo teatrale che si registra in Italia. Ovviamente nessuno fa confusioni o si permette comunioni. Nessuno tranne l'Odin stesso, che sfida costantemente il rischio di disperdersi e farsi svalorizzare sul nuovo piano dell'immagine e con il nuovo metro dell'omologazione. A seguirne attentamente le scelte e il lavoro, ci si stupisce di questa sostanziale e ostinata differenza: è forse rimasto l'unico gruppo, di quelli famosi, di quelli che scrivono con autorità frammenti di storia del teatro contemporaneo, a difendere l'impegno e l'attenzione costante (soprattutto pedagogica) verso i piccoli gruppi, gli sconosciuti del teatro, gli esordienti o quelli appena interessati. Quando questa dimensione o questo interesse non sembrano più "pagare", quando il "terzo mondo" del teatro - almeno in Italia-, dimessi i trampoli, sembra generalmente credere di non averne bisogno, di essere cioè rimasto in alto, di poter guardare verso l'alto o dall'alto, perché e come sviluppare questo atteggiamento "verso il basso"? Non può essere soltanto il basilare ricordo del "primo giorno", l'importanza di ricapitolare sempre il punto di partenza. C'è un "rispetto" dell'Odin Teatret verso le varie piccole forme della vita teatrale, che non è mai stato un abbraccio, ma che sembra essersi mantenuto profondo come molti anni fa. Ci deve peraltro essere un "investrmento" ancora conveniente in questa continua considerazione. Riguarda la pedagogia? Riguarda l'etica? Eugenio Barba. Esiste qualcosa che riconosco subito quando sono a teatro, o quando incontro una persona che non conosco. Qualcosa che io chiamo "vita". L'esperienza teatrale è per me "vita" che si manifésta attraverso delle opposizioni: la finzione scenica e la verità esistenziale che mi fa percepire, la corporalità dell'attore e la lievità spirituale nella quale mi immerge. Per questo adopero l'immagine dell'ecologia e mi soffermo a parlare dei licheni, delle piante meno appariscenti. Se si schiacciano i licheni, si intacca un anello essenziale di questa spirale di "vita" che attraversa tutto il sistema ecologico del teatro, dagli alberi maestosi alle piante effimere. Non si tratta di rispetto, ma di non essere cieco, stupido, e dimenticare o calpestare quello che può nutrirci.
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