40 Min Fars Hus (foto di Tony D'Urso). BibliotecaGino Bianco negri ... ". quando poi gli altri ti trattano come negro. Il terzo teatro è questa condizione di discriminazione culturale, economica, sociale. Essa può condurre alla rivolta e alla volontà di costruire una propria autonomia. Oppure può sfociare in un'inferiorità che lentamente viene interiorizzata e che porta involontariamente a allontanarsi, vergognarsi, deprezzare quello che si faceva e cominciare a fare quello che gli altri accettano. Il terzo teatro è un dingo, un cane selvatico. Può essere addomesticato, ma la sua vera natura è la selvatichezza. Anche nel terzo mondo esistono paesi forti, che vengono presi in considerazione. L'Arabia Saudita è uno di questi. È ricco, ma paragonato ai paesi industrializzati, è fragile. La ricchezza dell'Arabia Saudita è il petrolio. Ma è una ricchezza che il tempo corrode e fa svanire. Un po' come l'Odin Teatret che ha una grande ricchezza: l'esperienza ventennale incarnata dallo stesso gruppo di attori. Ma ogni volta che uno di questi attori scompare, decide di fare qualcosa d'altro, muore al teatro così come lo vogliamo noi, la nostra ricchezza diminuisce. La nostra forza è quella di essere riusciti, come gruppo, a incarnare una "visione". Ma questa visione scomparirà con le persone, non può trasformarsi in un modo di fare teatro. Rimarrà come punto di riferimento, ma storicamente concreto e tangibile. Non un'utopia, ma qualcosa che si può realizzare. Un esempio di uomini di teatro che sono riusciti, nonostante i cambiamenti biologici, sociali e culturali, a conservare uno stretto rapporto con l'inizio. "Stare fuori" e volerci rimanere, pur incontrandosi/scontrandosi con gli altri. Non sulle loro premesse, ma in questa "terra di nessuno" professionale dove la nostra corporalità ci rende tutti uguali, ci pone tutti di fronte alle stesse domande tecniche, di mestiere. Oppure di fronte alla domanda sul senso. Non del significato, ma del senso che ha per ognuno di .noi questo altro spazio che chiamiamo teatro, circondato ogni sera da poche centinaia di spettatori vigili e in fondo indifferenti. P.G. Mi ricordo di due anni fa, un incontro pubblico con Eugenio Barba a Milano, con presentazione di Franco Quadri, in un teatro affollato di "area giovanile" (e anche di area giovanil-stagionata). Quella conferenza divenne un'assemblea, nella sua dizione e colorazione politica (tanto per insistere). Gli argomenti e gli esempi, rubati alle tristi situazioni della politica internazionale, il tono usato e il tipo di rapporto evocato, ma soprattutto il tema e l'indicazione dominante della serata - i/ senso, dover trovare e mantenere un senso-, figurarono come il rilancio di un impegno (appunto) politico e funzionarono come innesco per tutto il pubblico. Molti si alzarono a testimoniare, a chiedere chiarimenti, ad aggiungere riflessioni e - perfino - a estremizzare polemicamente. L'esatto replay di una riunione di militanti di una volta. In una stagione lunga e pigra, il cui soprannome - "riflusso" - cominciava ad essere accettato con compiacimento, l'apertura del problema del "senso" bastò, in quella sala, a mettere in discussione parecche apatie e parecchi alibi. Era un periodo in cui anche nell'ambiente del teatro e della cultura (sempre del terzo tipo) si cominciava a procedere lungo la linea del progressivo adattamento: per esempio le rivalutazioni di parole e fatti impegnati e "indiscutibili" come il "lavoro", la "professionalità", la "specializzazione", il "rigore", lo "studio", cominciavano a essere adoperate per lo scopo di una tardiva ma felice integrazione, piuttosto cpe verso l'obiettivo dell'aumento della coscienza critica o semplicemente della conoscenza. Era un periodo che sostanzialmente è proseguito fin qui e in cui un richiamo al "senso" ha la possibilità di ristimolare i diritti e le necessità dell'etica. O anche, molto meno eppure sempre sufficiente, la velleità di interrompere la moda dell'andamento, per tornare a proporsi i modi (e i dubbi) dell'orientamento. Forse la necessità del "senso" è più facile da avvertire se si fa teatro e si vuole evitare di appiattirsi nelle forme - sia pure altissime - dell'intrattenimento (adesso che l'Arte ha riguadagnato un sua maiuscola di regime e il diritto a una metafisica spicciola, adesso che la libertà dell'espressione equivale e ripete la testimonianza del vuoto - proprio o riflesso - ed è diventato un esercizio tanto funzionale quanto indolore per il sistema sociale)? Oppure anche quanti sono impegnati o impiegati nei reparti ormai innumerevoli della cultura e dei suoi consumi, non hanno il diritto di sfug&ire ad una simile contraddizione? E per riaprire il tema, "cos'è il senso"? E sufficiente cercare un senso? E poi, se il senso vale come sostanza, ma altrettanto vale come direzione, come lavorare o contribuire alla fondazione o al rinnovamento di credibili sistemi di orientamento? E si può continuare a porre domande che chiedono uaa partecipazione, ma è più umile e più conveniente chiedere risposte. Cosa potrebbe aggiungere o ripetere oggi sul "senso", Eugenio Barba? E che lavoro o contributo al "senso" c'è nel nuovo spettacolo dell'Odin Teatret, li Vangelo di Oxyrhyncus? Un Vangelo in teatro oggi, che senso ha? Eugenio Barba. Il senso è una dimensione fondamentale nell'esistenza dell'individuo, un po' come l'anima. Oggi può far sorridere usare simili parole. Eppure ogni mattina svegliandomi e ritrovando in me il "senso" - questa incomprensibile necessità che mi spinge ad agire in un certo modo - mi sento felice e pieno di
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