Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

38 !ben Nagel Rasmussen in Min Fars Hus (foto di Tony D'Urso). BibliotecaGino Bianco tonazione a scoppio ritardato. Questo lo abbiamo imparato da Artaud, da Brecht. Sto parlando di un teatro la cui definizione molti attori e registi avrebbero difficoltà a riconoscere. Questa mancanza di definizione comune è conseguenza del destino "parallelo". Lo "stare fuori" sviluppa un comportamento diverso, i sensi reagiscono altrimenti: ti colpiscono cose che gli altri ignorano e trascuri cose che altri notano. L'unica possibilità di contatto è trovare un campo comune. Questo campo comune non può essere l'esperienza personale: questa non può essere scambiata, è nello stesso tempo troppo limitata e poco accessibile. Per poter stabilire un dialogo, si deve trovare una "terra di nessuno", un territorio senza frontiere dove l'incontro sia possibile. Per questo è essenziale una "oggettività" professionale. Come trasmettere la mia esperienza di uomo di teatro, frutto di un cammino personalissimo, a qualcuno e nello stesso tempo trasmetterla in maniera che lui la possa personalizzare, f aria sua. In altre parole: come distillare consigli professionalmente validi: momenti di riflessione e domande dove problemi contraddittori vengono messi a fuoco per essere risolti, per essere messi in atto. Per esempio:. l'attore che ogni sera deve "ripetere" lo stesso spettacolo, e ogni sera deve farlo scaturire e farlo percepire come invenzione immediata. Da qui l'interesse per l'antropologia teatrale. Perché l'antropologia teatrale ha portato alla scoperta di uno strato pre-espressivo nell'arte dell'attore. La "vita" dell'attore è il risultato dell'intreccio di tre poli. Il primo concerne la sua pre-espressività e si riferisce a dei fattori biologici comuni a tutti: giunture e vertebre, muscoli e organi per usare la voce, stare eretti, spostarsi, guardare. ·La presenza dell'attore è la conseguenza di questo uso del corpo: la tecnica. Tecnica intesa come "musica somatica", cioè alternanza e discontinuità costante di tonicità muscolare. La presenza dell'attore è, ben prima che egli voglia esprimere. Il secondo polo è relativo al contesto storico-culturale cui l'attore appartiene. Si tratta della tradizione in cui è inserito e che decide come il polo biologico -quello della pre-espressività - venga usato. Infine il terzo è il polo individuale. La "chimica" per cui quello che un attore fa, nessun altro lo può fare nello stesso modo. Io posso incontrare un attore giapponese o latino-americano o francese. Non posso copiare la sua "chimica" personale, né posso riferirmi, se non in modo limitato, al suo contesto culturale. L'unico fattore tangibile al quale posso riferirmi è quello della pre-espressività, dell'identità biologica universale. Questa rivela i principi della tecnica, cioè dell'uso che si fa del corpo, per costruire la propria presenza teatrale, prima che il voler esprimere e il significato intervengano. Qui può avvenire l'incontro: in questa "terra di nessuno" che non è soltanto mia o sua, ma intermedia perché universale, che oggettivamente può essere usata e discussa, vissuta e analizzata. P.G. Si può proseguire il paragone (o il pretesto). Lo "stare fuori" è stata davvero per molti - spettatori - la condizione e la sensazione di un "inizio". I conti (o i confronti) sembrano tornare, anche se si sono succeduti atteggiamenti ed esperienze molto diverse su questa stessa situazione di partenza. Per riprendere anche il secondo paragone (quello fra i "teatri del movimento") si può aggiungere che l'andare fuori del Living era un'indicazione e una conquista, la scelta provocatoria di una protesta e intanto un faticoso sacrificio autodeterminato; il sentirsi fuori dell'Odin è la registrazione di una condizione di emarginazione, una definizione intanto imposta e subita e quindi il faticoso esercizio di auto-organizzarla. Di nuovo il parallelo con il movimento corrispondente, fin nella verifica - per noi essenziale - delle varie fasi e modalità di rapporto che si manifestano verso il teatro, prima scoperto come strumento possibile del politico, poi inventato come luogo possibile del privato. Gradualmente i gruppi che lo praticano, vi cercano la validazione della loro identità ed organizzano - attorno e dentro il teatro - la loro quotidianità. In molti casi il teatro fornisce il ricambio materiale e ideale delle nuove e delle ultime "comuni". Il diffuso quanto frettoloso passaggio al professionismo, da parte di molti ex gruppi di base, comincia da lì. Tutto questo permette all'Odin di registrare e valutare un panorama di attività e organismi teatrali con precise caratteristiche socio-culturali (jn altro modo e talvolta con altro senso presenti in un -contesto internazionale diverso e lontano dall'Italia) determinate o ispirate dalla condizione di emarginazione, anche teatrale. Si tratta del "terzo teatro", una realtà che Eugenio Barba descrive in precisi termini di sociologia del teatro, della quale altresì coglie e sottolinea non la novità, ma la nuova importanza. Una realtà che - in troppi casi - si affretta a stravolgere la propria definizione sociale in estetica teatrale, confondendo e traducendo i propri bisogni e le proprie caratteristiche con una conveniente metodologia di lavoro, ma anche con uno sconveniente modello artistico-ideologico. È stata la necessità di abbracciare - senza troppe spese - una già precotta ideologia di ricambio? È stata l'inerzia di una stagione politica appena trascorsa ed il bisogno di compensare altrimenti la

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