Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

Jerzy Grotowski, Dario Fo e Eugenio Barba alla Biennale di Venezia 1985. BibliotecaGino Bianco UNPUGNODITERRA CONVERSAZIONE CONEUGENIOBARBA a cura di PiergiorgioGiacchè Sono anni, dieci o forse venti anni, che la descrizione del sociale (alla Goffman) sotto forma di teatro, può essere presa a pretesto, ·poi a modello, poi sul serio. Facciamo una prova. Via via che si è arrivati, giovani spettatori, a guardarsi in giro, si è potuto sempre distinguere - e si è dovuto rimaner distinti - dagli altri, dalle generazioni più adulte o più antiche, un po' come si rimane distinti e divisi dalla scena. "Loro" erano in scena. Il mondo era visibile, appetibile e accessibile quanto una scena. Il mondo era "loro"? Certo quanti avevano alle spalle un lungo racconto di miseria e di guerra e avevano partecipato alla necessaria ricostruzione e riorganizzazione del politico come del personale, davano l'impressione di avere da sempre esercitato il loro gioco ·di teatro nella porzione - più o meno grande - di "realtà" di loro competenza. O addirittura di loro proprietà. Quanto teatro e quante finzioni (anche nel senso giusto di "costruzioni") andavano a comporre il più che realistico spazio sociale per così dire "a disposizione", quanto teatro rivelava l'allestimento e l'organizzazione delle loro case e cose, la dinamica educata delle loro relazioni, l'alienazione involontaria delle loro produzioni ... Perfino gli hobbies non evadono ma confermano l'adesione e la dittatura di una precisa teatralità: dietro le quinte è tutto un bricolage, un continuo comprare, aggiustare, fabbricare i costumi, le luci e i servizi della scena quotidiana. Evidentemente questo teatro ufficiale lo si poteva valutare fin troppo perfezionato e affollato, i suoi ruoli e il suo linguaggio fin troppo codificati e obbligati, per non suggerire a molti la convenienza e la necessità di "sentirsi fuori". Certamente si era nati dentro, eppure con la sensazione di essere in ritardo per le parti principali, eppure con la sensazione di essere allontanati dai lavori più concreti. Mentre i più anziani protagonisti raccontavano di essere stati battuti sulla scena fin da piccoli, i compiti del gioco e dello studio spettavano ai nuovi bambini, da subito distratti e insieme da subito collocati in una nuova parte aggiunta, "di lusso", molto invidiata ma poco funzionale all'andamento dello spettacolo. Dissero: è per il teatro di domani, come dicessero "è quello il vostro, questo non vi appartiene: vi ospita". Qualcuno non si scompose e cominciò a prepararsi prima per le sostituzioni e poi per i ricambi; altri avvertirono permalosi questa "emarginazione dalla Realtà" e cominciarono a fingere "di fantasia". Non sempre in polemica; talvolta come verso un prolungamento complementare - alto, astratto, metafisico - di quella quotidianità già perfettamente eseguita. Ma non c'era poi una grande consapevole differenza fra chi credeva di dover rispettare la delega ricevuta di fare altro e chi pensava di dover trovare il modo e la forza di andare contro. Gli uni e gli altri si misero (letteralmente) in Movimento. E per far finta di uscire dalla forzata metafora goffmaniana, passarono dal teatro al Teatro. (Ma si possono anche invertire le maiuscole.) Nel senso che (molti più di quanto non si creda o non si ricordi) fabbricarono nuova necessaria teatralità per fingere la scena "alternativa" dove volevano vivere; molti (o tutti, con maggiore intensità o importanza di quanta se ne voglia ammettere) incontrarono il teatro in senso proprio, il suo valore di scambio e il suo valore d'uso, come si sarebbe potuto dire allora. Le stagioni successive - e non casuali - della contro/informazione prima e della creatività poi, hanno avuto nel teatro più di uno strumento, di un punto di riferimento: talvolta una bandiera. Per· l'Italia il fenomeno Dario Fo vale a ricordare da solo la possibilità e spesso la centralità del teatro nel "lavoro politico" di associazioni, gruppi, movimenti. Eppure la scelta e il rinnovato interesse nei confronti del teatro, da parte di generazioni nate ed orientate dentro e verso altri linguaggi e strumenti, meglio rappresentativi del presente e più affidabili per il futuro, non può essersi basata sulla tradizione politica o sulla metodologia militante del teatro. C'era bisogno continuo di modelli di funzionamento e dimostrazioni di funzionalità. A questo proposito, se il Living è stato una "rivelazione", l'Odin è stato un esempio. Se il Living diffondeva (o diluiva) il suo teat~o nella pre-politica degli anni dell'avvento, l'Odin raccoglieva verso il teatro la post-politica degli anni del privato. Così - irragionevolmente e maleducatamente - si può immagin~· ..sia stato consumato l'incontro e si sia realizzata la scelta del teatro, da parte di un movimento prima in fieri e poi in forse; meglio sarebbe dire di un "momento" del sociale (e del "giovanile"), e più esattamente converrebbe parlare di "pubblico". Era nato un pubblico nuovo, inconsapevole della sua previsione e valutazione da parte della ricerca e dell'estetica delle nuove proposte dei teatri, eppure anche lui con vivaci proposte verso di quelli. Proposte di consumo attivo, di distribuzione alternativa, di produzio-

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