12 DISCUSSIONE/BARENGHI cato tutto l'appoggio critico e morale che poteva ragionevolmente dare, spiegando con estrema chiarezza che i suoi rapporti editoriali erano però di tipo strettamente economico. Ha sempre saputo il motivo, preciso fino ai decimali, per cui ha tenuto certi libri presso un editore e altri presso altri. Non si riteneva lo spirito del mondo. Era perfettamente consapevole della natura, in ultima analisi casuale del successo (se si ragiona in termini veramente generali) ma anche del molto lavoro e del molto mestiere che richiede. Pensava che la ricchezza delle nazioni e la pace del mondo fossero importanti quanto la ricchezza e la tranquillità degli individui. Difendeva la sua agiatezza, che credeva di aver meritato, per sé e per i suoi, senza mistificare. Lo ha detto e scritto. Non capiva, o meglio capiva ma pensava che fosse un grosso problema, e lo aveva scritto e detto, il pauperismo del suo amico Pier Paolo Pasolini, che aveva molti più soldi di lui, e se ne sentiva distrutto. Credo che in questa accettazione della quotidianità, nella valutazione positiva della prosperità e della pace per le nazioni, consistesse il suo esser ed esser restato a sinistra. li disprezzo della quotidianità, dell 'agiatezza, della tranquillità è positivo solo se è dei poveri, poco letterati, poco potenti, che se inseguono il soldo restano soggetti in eterno; quando si presenta presso i letterati agiati indica, con qualche eccezione, solo la volontà di comandare senza regole o la pura menzogna. Sarà impossibile a tutti parlare ancora con Italo Calvino. A me ne è rimasto un senGrandville, da Un altro mondo, 1844. BibliotecaGino Bianco so acuto di mancanza, di dolore, che si sovrappone alla riconoscenza, all'allegria in fondo, per la sua parola scritta. Credo che questo voglia dire che gli sono stato amico. SGUARDDO'INSIEME Mario Barenghi Ci sono due modi, spiega Marco Polo a Kublai Kan, per non soffrire dell'inferno in cui abitiamo. "Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio''. Così recita il finale delle Citta invisibili. Un finale "forte", che rasenta il titanismo; e che -sia detto per inciso - solo la non levigata energia delle espressioni predicative ("fare durare", "dare spazio") salva dalla tentazione oratoria. Una combattiva dichiarazione di impegno intellettuale e morale: quasi una professione di volontarismo etico, stoicamente protesa a fugare i sospetti di passività contemplativa e di acquiescente inerzia. È notevole che una delle opere più rarefatte e cerebrali di Calvino si chiuda su una battuta così strenuamente agonistica: proprio quando parrebbe aver ceduto al libero gioco dell'intelligenza, dell'immaginazione, dello stile - alla prosa d'arte, insomma - Calvino rivendica l'assoluta non gratuità della propria invenzione letteraria. E in verità, fra le righe e le strade delle città invisibili si cela una sorta di mappa o di atlante dell'inferno nel quale occorre imparare a muoversi e a destreggiarsi. La maggior parte delle vie, certo, sono senza uscita; ma l'àlacre esploratore di mondi non interrompe per questo la sua ricerca, e soprattutto non cessa di concepire la realtà in termini di strade da percorrere e di città da scoprire. Se dagli stravaganti agglomerati di uomini e di cose che Marco Polo incontra durante i suoi viaggi non emerge il profilo di alcuna polis degna di questo nome, tuttavia nel fondo della sua coscienza un'intima vocazione politica caparbiamente resiste: e rassomiglia molto più all'auspicio (sia pur disincantato) di un avvenire meno invivibile, che al vagheggiamento residuo di un passato migliore. Un inatteso pendant retrospettivo alla sostenutissima chiusa delle Città invisibili ci è offerto dal paragrafo finale del Barone rampante. Giunto al termine della vita di Cosimo con la rievocazione della sua ascesa al cielo, il narratore Biagio Piovasco di Rondò rivela, con uno stacco abbastanza brusco, lo sfacelo del mondo che era servito da scena alle straordinarie avventure del fratello. Scomparsi i protagonisti, distrutta la foresta di Ombrosa, stravolti la vegetazione e il paesaggiò, nulla è sopravvissuto della nuova civiltà arboricola ideata ed esperita in solitudine dall'irrequieto barone. E il suo biografo, improvvisamente memore di una misteriosa catastrofe, ugualmente sbigottito e incredulo di fronte a ciò che vede e a ciò che ricorda, si ritrova solo con la propria scrittura - a sua volta improvvisamente opaca, enigmatica come un crittogramma, insignificante come un fregio. Tutto ciò che può fare, è registrare l'accaduto con trasognato piglio visionario, e sprofondare nel silenzio. Con simmetria speculare rispetto al finale delle Città invisibili, qui una delle opere più costruttive e propositive di Calvino si chiude nel segno di un'attonita impasse esistenziale. Queste due clausole appartengono a epoche diverse della produzione di Calvino, nonché della storia italiana contemporanea (li barone rampante è del 1957, Le città invisibili del 1972). In particolare, esse si situano sui due spioventi opposti di un evento storico che si svolse senza dubbio con gradualità, ma che non fu per ciò meno discriminante e decisivo: il definitivo tramonto delle speranze e degli slanci ideali della lotta di liberazione e dell'immediato dopoguerra, entro cui si era formata la generazione di Calvino. E in effetti la sola autentica svolta riconoscibile nella sua carriera di scrittore si verifica lungo un arco di tempo che va dalla fine degli anni Cinquanta (per :. ':. ..... -t, • ·~- -,. t . •· ' .. _. Claude-Nicolas Ledoux, Progetto di edificio, I 785.
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