Linea d'ombra - anno II - n. 12 - novembre 1985

RICORDO DICALVINO FrancescoCiafa(oni Ho conosciuto Italo Calvino assai prima, e meglio, dagli scritti che di persona. Ero minore di lui di 14 anni e ho fatto in tempo a leggere, da adolescente e da giovane, quando gli incontri con i libri e con le persone sono fondanti, le sue opere maggiori, i racconti, gli apologhi, la trilogia. Più di 25 anni fa ho passato buona parte di una notte a discutere con un amico che oggi fa il giornalista, alla casa dello studente dell'Università di Roma, se uno che aveva scritto un libro così totalmente disperato (a noi sembrava così) come li cavaliere inesistente potesse ancora vivere e, soprattutto, potesse ancora scrivere. Per fortuna, sua e nostra, poteva. L'ironia e la ragione sono di qualche aiuto a questo mondo, per capirlo per quel che si può, e per sopportarlo soprattutto. Italo Calvino aveva l'una e l'altra. Allora studiavo per fare l'ingegnere e, data la differenza di professione e di classe sociale, non pensavo di conoscerlo mai. Ne discutevamo come si potrebbe discutere di Omero e di Yalmiki. Poi invece mi è accaduto di diventare, in senso un po' lato, suo collega di lavoro e di avere, per quindici anni, frequenti occasioni pubbliche e private di conversare con lui. Ho impiegato un paio d'anni a venire a capo della imbarazzante sensazione di conversare con Yalmiki. Per una diecina d'anni ho pranzato con Italo Calvino praticamente: 1u11c:le volte che passava a Torino per lavoro, cioè più o meno una volta al mese. Cenato invece quasi mai, perché a Torino la cena è sacra, quella collettiva è rara, come ricorda anche Montesquieu: va prenotata con quindici giorni di anticipo ed è riservata agli intimi. È questo uno dei motivi per cui a Torino nessuno vede mai nessun altro. Pranzavamo a due, cercando un qualche buco vicino a via Biancamano che non fosse quello scelto quel giorno dal resto della redazione, per poter parlare non della casa editrice, ma dell'universo mondo. Parlare con Italo Calvino voleva dire, come è noto, proprio parlare più che ascoltare. I difficili avvii, gli "heemm ... " di Italo sono già stati descritti. Era uno specialista: se voleva raccontare scriveva, non parlava. E quando scriveva, per dire la verità, anche la verità dura e inedita, aveva bisogno di raccontare storie, di metterla in metafora. Anche i suoi saggi e articoli di giornale prendevano respiro e dicevano la verità solo quando ci ficcaBibliotecaGino Bianco va dentro una storia, una favola. La grande bonaccia delle Antille è un apologo, la polemica sulla Letteratura di Asor Rosa si regge su due metafore. Un giorno gliel'ho detto e mi ha risposto: "Siamo al signor di Lapalisse. Non sarà mica un caso se ho acquistato una qualche fama come narratore". Parlando invece non raccontava mai ed era capace di polemiche anche aspre; e di dire la verità. Con me parlava, in senso lato, di politica. Non di partiti o di ideologie ma di fatti sociali, di rapporti, di cambiamenti, di come cambiava Torino, di confronti con l'Europa, con l'America, con la Cina, di uomini, di lavoro, di mezzi e di fini, di pace e di guerra; di politica insomma. Se il ragionamento si spostava sugli anni quaranta.e cinquanta, sulla guerra, sulla resistenza; se qualcuno della mia generazione sbagliava prospettiva nel valutare quegli anni o il lavoro specifico suo e di quelli che avevano lavorato con lui, poteva animarsi anche molto. Rompeva l'abitudine alle domande sornione e alle risposte lente e ironiche e poteva parlare anche un'ora. Diventava ricco di fatti e di aneddoti e anche di passione. Non di retorica. Si era dato da fare abbastanza allora, alla sua maniera, dicono, un po' trasognata, per avere con quegli anni un rapporto pulito, preciso. Ma la curiosità, le opinioni, informate e razionali, non si fermavano ai tempi in cui si scriveva "Fiorin gentile/salpa la 'navicella a bianche vele/ Alcide se ne va il 18 aprile" (sarebbe di Natalia Ginzburg). Arrivavano fino agli anni ottanta, e costituivano il nucleo della maggior parte delle discussioVasarely, Pyramides métalliques en unité, 1944. Le illustrazioni di questa sezione sono tra quelle scelte da Calvino per le copertine dei suoi libri. DISCUSSIONE/CIAFALONI ni. Consentiva la discussione, nella differenza di molte valutazioni, il fatto che Italo non era nazionalista, non aveva in nessuna forma la tendenza alla "religiosità astratta dello stato" che è il ventre molle, il punto di ambiguità di tanta sinistra italiana. Era universalista e razionalista e voleva sapere da me un po' di fatti sull'Italia e su Torino, in cui non viveva più. Il suo amore per l'oggettività non arrivava fino al punto di interessarsi davvero alle scienze sociali. Quando capì che io leggevo davvero le statistiche, che ero abbonato a qualche pubblicazione dell' lstat e che mi orientavo nel fare i confronti anche leggendo le statistiche Eurostat, dell'Onu o dell'Fmi ecc., ci pensò un po' e poi mi chiese: "Ma tu leggi -davvero tutti quei numeri?" "Eh, sì!" "Bel matto che sei!" Del resto ho scoperto parlandoci, e ho poi controllato leggendo in questa chiave i suoi articoli e libri di tema o di chiave linguistica scientifica e parascientifica, che le scienze positive, le scienze naturali insomma, o la logica, a Italo non interessavano affatto. A lui interessavano le teorie scientifiche come fonte inesauribile di metafore e di storie, c_ome macchina mitopoietica, come aggregato di paradossi per mettere in crisi il senso comune. "Pourquoi pas lapechblenda, pourquoi?". Questo e non di più. La sua indagine reale riguardava la società, gli uomini e il loro universo fantastico. Lì si esercitava, per iscritto da narratore e a voce da critico e polemista, la sua razionalità. I fisici, se non facevano stupire un poco, meglio molto, non gli interessavano per nulla. Uno dei suoi rari scivoloni, uno sgarbo ingiustificato, è una sua risposta su un giornale a una lettera, molto cortese ma critica, di Margherita Hack, sul suo uso dei conceùi dell'astronomia. Lui aveva reagito offesissimo trattandola da maestra di scuola irrispettosa della libertà fantastica del narratore. Lei invece aveva criticato, giustamente, un articolo che aveva tutta la forma linguistica della divulgazione, e che le sballava grosse. "Tu insomma dici che a me le teorie interessano solo se le sballano grosse", mi ha detto una volta. Dicevo, e dico, proprio quello. E anche qui siamo al signor di Lapalisse. Ho sentito Calvino particolarmente vicino in questi ultimi anni, in cui si è disfatto l'ambiente culturale e aziendale in cui lo avevo conosciuto. Italo è tra quelli che hanno mistificato di meno, che non hanno mentito. Aveva un rapporto risolto con la sua professione, col suo successo, e con i soldi. Ha dato ai lavoratori dipendenti dell'azienda per cui aveva lavorato e da cui era stato pubbli11

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