92 SCHEDE/CINEMA all'innaturale miracolo delle voci. Da qui l'idolatria per i castrati, nei quali l'avvenuta violazione della natura era inscritta nel modo più inequivocabile e rassicurante. Quanto alla fruizione frammentaria delle opere va detto che è l'unico tipo di fruizione che il settecento abbia mai immaginato. All'opera si andava per fare mille cose, una delle quali, non sempre la più importante, era ascoltare l'opera. I teatri avevano un'acustica molto approssimativa, la gente chiacchierava tutto il tempo: si sentiva poco, un po' come ali' Arena. Spettava ai cantanti imporre l'attenzione: il completo silenzio erano capaci di ottenerlo solo pochi virtuosi. E di norma si prestava attenzione ai passaggi più virtuosistici: il resto del tempo lo si occupava passeggiando, facendo salotto e giocando a carte. Gli stessi cantanti condividevano allegramente l'andazzo generale: pare che tra una strofa e l'altra delle arie non fosse raro vederli sporgersi verso la platea e chiacchierare amabilmente con qualche amico in sala. Il gigantismo fu caratteristica soprattutto del teatro musicale seicentesco: lo spettacolo doveva essere specchio della grandezza del sovrano o del mecenate di turno. Il resto lo faceva il gusto barocco per le macchine, anch'esse, a loro modo, affascinante violazione del codice naturale. La fama di "spettacolo più grande del mondo" nasce lì: durerà fino agli inizi del novecento, quando provvederà a stemperarla la magia del cinema. Per noi l'espressione suona ormai un po' ridicola: con un certo stupore la si sente risuscitare nella fantasia, di fronte a fenomeni come quello dell'Arena. Infine: il teatro dell'Opera come luogo denso della prassi sociale. Iniziò a esserlo quando uscì dalle Corti. Lo fu per tutto il Settecento e l'Ottocento. Samuel Sharp, uno di quei viaggiatori settecenteschi che si presero la briga di raccontare l'Italia dell'epoca all'Europa, racconta che "i nobili napoletani preferivano trovarsi nei palchi del San Carlo piuttosto che a casa loro; per questo non mancavano una recita, anche se l'opera, la stessa opera, senza alcun cambiamento, veniva rappresentata tre sere di seguito per dieci o dodici settimane". Colpisce l'assoluto disinteresse per l'opera in sé: una consuetudine che non doveva essere monopolio dell'aristocrazia. Fino a quando il codice di comportamento ancor oggi in vigore non ha irrigidito maniacalmente il rito dello spettacolo operistico, i teatri d'opera sono stati microcosmi in cui si raccoglieva e riassumeva una porzione significativa della vita sociale. Per questo avevano un senso in sé a prescindere dalle opere, e non erano semplicemente la necessaria e dorata cornice di un evento culturale. Qualcosa di simile a ciò che oggi riesce a essere un posto come l'Arena. La quale, se ha un senso, ce l'ha proprio per questo suo risuscitare un'idea arcaica di teatro musicale: fra tanti ricuperi filologici, il suo sembra di gran lunga il meno noioso. CINEMA . DENTROEFUORILOSCHERMO Gianni Volpi I mass-media sembrano essere una presenza costante, essenziale negli ultimi film di Woody Allen. Mass-media diversamente trattati: con più virulenza e sarcasmo e con più estremismo sperimentale il reportage televisivo, smontato nella sua composizione a luoghi comuni e topici della cultura di massa (le interviste agli "esperti") e nella sua finzione come documento (Zelig); con affetto e nostalgia il teatro d'avanspettacolo, calato in una cornice di ricordo e di conversazione da entertainer (Broadway Danny Rose); con più gusto surreale, con più fascinazione critica per il suo carattere di sogno del tutto inserito nella realtà il cinema, quello più "classico", degli anni trenta e di avventure (La rosa purpurea del Cairo). In Zelig erano gli anni venti, in Broadway Danny Rose gli anni cinquanta, cioè i tempi "eroici", di vitale espansione, rispettivamente dell'informazione di massa, dello show-business, di Hollywood; Woody Allen, ed è un dato da sottolineare, si mostra singolarmente acuto nell'intuire i tempi giusti per le proprie operazioni, il Tempo specifico di ogni "mezzo" quando ha davvero diffusione e incidenza di massa. L'arte "riflessa" di Woody Allen è, insomma, ben fondata, e vieppiù cosciente nella sua impagabile leggerezza di tocco; questo intelligente autore-attore (e, se l'attore non è che la proiezione dell'autore, ne resta nondimeno l'incarnazione peculiare, imprescindibile) sembra dare negli ultimi tempi più forza intellettuale (senza mai mettere da parte, nel bene e nel male, l'aspetto di "gioco" mondano, letterario, al meglio: teorico) alla sua comicità (che in realtà si è fatta, almeno da Una commedia sexy in una notte di mezza estate, Arte della Commedia seppure sui generis, in cui il valore Racconto prevale sui gag fine a se stesso, sulle battute e gli one-liners citatissimi), al suo cinema che non è mai in presa diretta sul reale, ma sempre mediato dalla cultura e dall'informazione, dalle "immagini" di massa, di uso corrente, che la società propone di se stessa. Punto di partenza, dunque, è ancora una Storia nella Storia, un Film nel Film. Anzi, apparentemente, un film contro l'altro: il bianco e nero della Finzione contro il colore della Realtà. il film che Allen si inventa questa volta è quello del titolo, rifatto "come se", con un'abilità artigianale nel riprodurre tecniche, luci, stile di altri tempi che ormai in lui non sorprende più. È il "sogno": avventura, esotismo, ambienti di lusso; e di questo sogno sono evocati i décors mitici: le Piramidi e il Copacabana Club, Tangeri e Casablanca. La "realtà" è quella della Grande Crisi del 1929, la New York diseredata delle fabbriche chiuse, dei crocchi di disoccupati. Tra i due piani c'è un legame, un'interdipendenza molto più stretta di quanto dovrebbe; e la fortuna, allora e in successive epoche di crisi, dei "generi" cinematografici più astratti e evasivi è lì a dimostrarlo. Sono due facce speculari. Ma Woody Allen non è così sociologico. L'unica sociologia che lo abbia mai interessato è quella che passa attraverso se stesso, la confessione diretta e autoironica che finiva per esprimere un disagio e una nevrosi non solo suoi. Erano i tempi di lo e Annie, di Manhattan, con il loro intenso blend letterario-esistenziale. Ora non è questione che di cinema, di quello specchio che è il cinema. E lo specchio si può attraversare. Avviene un giorno al Gioiello, un cinemino del West Side. Uno degli eroi, l'esploratore Tom Baxter, dei "Baxter di Boston" precisa, esce dal film (che si "arresta"), dallo schermo, scende in platea: entra nella realtà, entra nella vita di Cecilia, assidua spettatrice di quinta fila e malmaritata cameriera di snack bar. Di qui si diparte il gioco di rifrazioni, sdoppiamenti di Woody Allen - e tutti i discorsi e possibili soggetti per saggi critici brillanti, che poco ci interessano. Il contrasto tra Vita e Forma, il tema dell'lllusione, la pirandelliana Autonomia dei Personaggi, ci sembrano oggi anche troppo ricorrenti, abusati. Ciò che ci interessa è la grazia con cui è usato questo procedimento non nuovo (l'effetto di spaesamento provocato dall'innesto di un "testo" in un contesto estraneo, lo avevano già teorizzato gli strutturalisti russi degli anni venti; ma senza andare tanto lontano, lo aveva sperimentato, assieme a Fosse, lo stesso Allen di Provaci ancora, Sam, e giù giù sino a Sherlock Jr. dove Keaton "entrava" in un film), la naturale ricchezza di implicazioni di questo doppio viaggio nello Schermo -ché anche lo schermo è abitabile e Cecilia
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