Linea d'ombra - anno II - n. 11 - settembre 1985

Un'Aida a Verona. di spettacolo che essa incarna. L'osservazione di partenza è elementare, ma meno scontata di quanto si creda: ali' Arena si sente poco. Normalmente chi ci va - specie se non è un abituale spettatore dell'Opera - torna e la prima cosa che racconta è: "si sentiva benissimo!". Questo perché, in cuor suo, si aspettava di non sentire quasi niente. Ma chi ha un minimo di consuetudine con l'acustica di un normale teatro lirico non può non notare la differenza e misurarla con una certa delusione. L'orchestra sembra (e in certa misura è) lontanissima, le mezze tinte vanno perse, i pianissimo non esistono, i fortissimo suonano come ammortizzati dalla profondità del cielo aperto. Le voci per lo più rinunciano a particolari sottigliezze espressive (che andrebbero inesorabilmente perse) e si concentrano sulla purezza e sull'intensità dell'emissione: costrette a forzare, rischiano peraltro ad ogni istante l'incidente. Il massimo dell'imbarazzo lo si raggiunge nei pezzi d'insieme, là dove il dosaggio delle parti risulta già problematico in condizioni di acustica normali: le studiate architetture di terzetti, quartetti e simili si sbriciolano sotto l'incalzare di un'avvincente gara a chi strilla di più (di solito vince il tenore) naufragando in babelici gorghi che il pubblico, sorprendentemente, mostra a volte di gradire. Tutto ciò, è doveroso dirlo, compromette di fatto la possibilità di una fruizione adeguata dell'opera. Ingiusto sarebbe, però, dire che vanifica lo spettacolo: più propriamente lo modifica, alterandone i presupposti e gli effetti. Lo spettacolo·che offre l'Arena non è inutile, e nemmeno stupido: è semplicemente diverso, molto diverso da quello che oggi può offrire una normale rappresentazione in un normale teatro lirico. A ben vedere esso ripristina il contesto culturale e le condizioni di ascolto che caratterizzavano il teatro musicale premoderno. Questo è il suo fascino: quello di risuscitare una formula che trionfò per tutto il settecento e che la maturata consapevolezza estetica del nostro secolo sembrava aver corretto una volta per tutte. Cerco di spiegarmi. Le inadeguatezze acustiche ed ambientali dell'Arena generano quattro, fondamentali conseguenze. 1)Nella prestazione dei cantanti diventa decisivo l'aspetto tecnico e perde d'importanza l'aspetto interpretativo. La prodezza che il pubblico dell'Arena si aspetta dal cantante è fondamentalmente quella di riuscire a farsi sentire: l'aderenza al personaggio e la correttezza stilistica sfumano a optional inessenziali. Ciò riporta alla ribalta il carattere di "fenomeno" del cantante lirico. Torna un'emozione che nei teatri normali quasi si è persa: la meraviglia per ciò di cui può essere capace una voce impostata. Nelle ovazioni che sottolineano le prodezze virtuosistiche dei cantanti risuona la gratitudine collettiva per chi, in certo modo a SCHEDE/MUSICA nome di tutti, ha violato per un istante le logiche leggi della natura, risuscitando la possibilità del miracolo. Che poi si tratti di Verdi, di Puccini o di Rossini non ha nessuna importanza. Prima che dei personaggi quei buffi signori sulla scena sono, semplicemente e miracolosamente, delle voci. 2) Il pubblico è portato a una fruizione frammentaria dell'opera. Poiché l'ascolto e la visione non sono particolar.mente agevoli, l'attenzione tende a concentrarsi su alcuni momenti particolari: in genere quelli più famosi, in particolare quelli più "rumorosi" e più spiccatamente virtuosistici. Tra uno e l'altro ci si gode l'Arena, il vicino di posto, lo spuntino o i propri pensieri. 3) Gli allestimenti tendono, in virtù dei grandi spazi dell'Arena, al gigantismo. Le scenografie diventano uno spettacolo nello spettacolo. La regia, che sa di non poter speculare troppo sulla mimica spicciola dei cantanti (tanto li si intravvede appena) si sbizzarrisce manovrando alla grande le masse: soldati, popolani, zingari, sacerdoti finalmente liberi da quelle corsette asfittiche a cui li costringono i piccoli spazi dei normali teatri. La grandeur consumata sul palcoscenico completa l'emozione data dal compatto e enorme muro di folla che assiste allo spettacolo: il risultato è la sensazione, comune a tutti i presenti, di assistere al "più grande spettacolo del mondo". 4) Si finisce per andare ali' Arena non tanto per vedere l'Opera quanto per vedere, e vivere, l'Arena. Lo spazio dove accade l'Opera torna a essere uno spazio assolutamente eccezionale: un luogo totem dove si consuma un rito. Un "luogo denso" e simbolicamente pregnante della prassi sociale. Ora: questi quattro punti ricalcano abbastanza fedelmente i tratti più caratteristici del consumo sei-settecentesco del teatro musicale. Che i cantanti dell'epoca fossero assai più delle splendide voci che dei bravi interpreti è cosa risaputa. La mimica gestuale, specie nell'opera seria, era di una convenzionalità assoluta, l'approfondimento psicologico dei personaggi per lo più inesistente. Ai cantanti non si chiedeva affatto di essere intelligenti: quel che contava era la tecnica e il virtuosismo. Ancora ai tempi di Rossini potevano mietere grossi successi opere assolutamente insignificanti ma che si rivelavano efficaci trampolini di lancio per la bravura dei cantanti. Poco propenso a caricare di significati e di echi simbolici le storie che il melodramma gli propinava, il pubblico del settecento scatenava piuttosto il proprio immaginario simbolico sulle figure dei virtuosi. Il fascino del teatro musicale era soprattutto legato 91

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