90 SCHEDE/MUSICA ogni pagina. È questo il tributo che chi è interessato a Barilli - scrittore tanto rapido e acceso da imporre modi di accostamento altrettanto immediati - deve pagare alla veste universitaria della presente edizione, frutto di un contributo del C.N .R. Il rilievo del Paese è essenzialmente letterario. Attraverso l'autobiografia di Barilli, vi è tutta un'area di invenzione che dilata l'esperienza storica attribuendo alla realtà locale (Parma, i parmigiani, la circostante Padania, "quella enorme zanzariera che è la valle del Po fra Parma e Mantova") carattere di ambienti e personaggi verdiani. Capitoli stupendamente "parmigiani" nel senso di questa ricreazione fantastica sono Migliavacca e Il ponte verde, in cui, come avviene per la Modena di Delfini, il tono della provincia italiana in un preciso momento della sua storia è dato con evidenza lampante nel passaggio da narrazione di memoria a narrazione di fantasia. Giuseppe Verdi è al centro di tutto il libro, e anche i capitoli espressamente a lui dedicati si inseriscono in questo vagheggiamento di un passato cui Barilli riporta la propria formazione e il proprio tempo ideale. Verdi è il punto di riferimento di "una miracolosa razza" verso la quale si sente debitore, che lamenta "spenta con lui sul finire del secolo" e soppiantata da generazioni "rimescolate e confuse frettolosamente dalla politica, dalla guerra e dalla così detta cultura economica", dimentiche "di quel che fu l'affanno lirico, l'idolatria romanzesca e musicale degli italiani dell'ottocento". Verdi è, in una parola, il tramite privilegiato che congiunge Barilli alla propria giovinezza e alla propria patria sentimentale. Si comprende, perciò, che sarebbe assurdo considerare i capitoli verdiani del Paese come contributi musicologici in senso stretto. Detto questo, deve aggiungersi che le pagine su Verdi hanno un rilievo eccezionale per la storia della presenza del compositore nella sensibilità e nella cultura italiana del nostro secolo. Esse, sotto questo profilo particolare, possono valutarsi anche da un punto di vista contenutistico, prescindendo dall'apprezzamento della prosa in cui sono tradotte, fra le più espressive di Barilli. Per comprendere il senso della rivendicazione della grandezza assoluta di Verdi fatto nel Paese giova ricordare che il libro uscì quando non era ancora stato avviato il ricupero verdiano che doveva svilupparsi nel decennio successivo. L'opera italiana era in crisi profonda e irrimediabile (con l'eccezione di Puccini) e i suoi legami con la produzione del passato erano assai discutibili. Verdi stesso era considerato comunemente come autore superato, rimasto nei repertori con le opere più popolari in omaggio al gusto del pubblico, ma trascurato dagli studi e dal gusto del mondo colto. In tale situazione, Barilli si propose di dare battaglia in difesa di Verdi, e di darla nel modo più aggressivo e squillante. La sua tattica fu di conclamare la grandezza del Verdi apparentemente meno moderno, quello del Trovatore rispetto a quello di Fa/staff e, insieme, di accreditare questo assunto collegando Verdi a un entroterra parmigianopadano, contadino, non raffinato, che lo opponesse al "parassitismo intellettualistico" della "musicologia ragionante" per ricuperarne una immagine genuina, e perciò "ardente e corrugata", la "voce imperiosa", gli "istinti pieni di veemenza primitiva". L'operazione era sicuramente arbitraria, giacché ben sappiamo quanta sapienza avesse Verdi e quanta scaltrezza di uomo di teatro, ma era significativa perché costruiva una sua immagine di "contadino eroe" in cui si esprimeva l'anima popolare italiana che, per questa via, consentiva di sovvertire la gerarchia di valori (ininterrottamente ascendente fino a Fa/staff) istituita dalla critica dei primi decenni del Novecento. In questo modo le opere del Verdi "antico" ritrovavano la loro dignità (prima di tutto, di palcoscenico), indipendentemente dal grado di vicinanza cronologica alla opere ultime, e la loro "modernità" era ricondotta non già alla corrispondenza alle idee (per fare un nome non amato da Barilli) di Boito, ma alla qualità della loro musica e alla espressività del loro canto. Fra le pagine più stupefacenti del Paese del melodramma sono appunto quelle che parlano del Trovatore, del Ballo in maschera, di Aida, dandone per immagini quasi una trasposizione verbale, di gusto sicurissimo (vien fatto di ricordare, per contrasto, il fraintendimento del Ballo compiuto in un articolo del 1941, ora in Scatola sonora, da un altro uomo di gusto, Savinio), di interpretazione, al di là degli assunti polemici, insuperata. Sono qui (come nel capitolo Teatro, in cui rivive l'emozione senza confronto dello spettacolo d'opera e della "musica fisica", come la chiamava Stendhal) le espressioni più intense dell'amore di Barilli per Verdi, fondato sulla certezza di combattere in suo favore una battaglia giusta. La stessa certezza che gli faceva scrivere, a proposito del ricupero di opere dimenticate di Verdi, allora appena iniziato e che si è poi svolto sotto i nostro occhi: "Molte opere di Verdi vennero rappresentate cinquant'anni fa per l'ultima volta. Non caddero, ma furono abbandonate. E non se ne parlò più. Non vennero sepolte, ché non erano morte definitivamente, né vive sembravano più essere. Rimasero fuori rotta, in quarantena. Chiuse, aspettando. E il tempo non le ingoiò. Luisa Miller, I due f oscari, Macbeth, Nabucco... Erano ricche, nobili e salde, nutrite di quella vena inesauribile e popolaresca che distingue il miglior Verdi e durarono più della loro condanna. Armate di ferro e d'argento, con tutte le vele spiegate, queste opere bussetane e genovesi rientrano, una dopo l'altra, sontuosamente in servizio. (... ) Non presentavano avarie o deterioramenti, né di fuori né di dentro: erano intatte. E più nuove, apparvero. Rafforzate dalla stagionatura, e in istato di riprendere il mare; passando in bilico perfetto, e galleggiando valide, maestose e dolci dinanzi agli occhi stupiti del mondo, del mondo moderno". ILPIÙGRANDESPETTACOLO DELMONDO Alessandro Baricco Tra i tanti festival che la musica colta si concede nei mesi d'estate ho scelto una volta tanto il più ovvio e collaudato di tutti: e sono andato a Verona. A Verona c'è l'Arena, che come tutti sanno è un grosso catino di pietra che quasi quotidianamente, per due mesi, si divora camionale di gente offrendo a prezzi in fondo generosi la grassa emozione del melodramma o quella, più sottile, del balletto. Quest'anno in cartellone c'era, oltre a Giselle, un'anomala trilogia verdiana: Trovatore, Aida e Attila. Un fortunato gioco di date mi ha risparmiato l'ultima, sulla cui fragilità mi ha reso edotto a sufficienza una recente messa in scena torinese. Alle altre due, belle di una bellezza così differente, ho dedicato un torrido weekend di luglio, condividendole con un numero incredibile di melomani, turisti ignari, famigliole con thermos e frittatine, pensionati lacustri e, ovviamente, divertiti giapponesi. Delle due opere in questione hanno già riferito i critici da quotidiano, opportunamente lodando gli interpreti dell'Aida e benignamente perdonando la sostanziale mediocrità di chi nell'occasione si è visto affidare la sempre ingrata incombenza del Trovatore. Qui - di conseguenza - preferirei dire dell'Arena, e di lei sola: per tutto ciò che di assurdo e significativo custodisce l'idea
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==