88 SCHEDE/SAGGI la Weltanschauung della borghesia guglielmina. Siamo e rimaniamo, comunque, in una dimensione di storia delle idee, e a tratti viene a mancare un corrispettivo puramente storico a tutti i fenomeni che scorrono tra queste pagine. Ma questo è limite forse inevitabile per chi dichiara, proponendo nel 1974la ristampa invariata del proprio lavoro, che "né allora né oggi riesco ad attribuire ai concetti di classe e alle categorie economiche la facoltà di cogliere o illuminare una visione storica" (p. 265). FAREPOESIA,EFARLAMARE Mario Barenghi Il compassato sottotitolo di La dama non cercata di Giovanni Giudici (Mondadori, pp. 242, L. 24.000) suona Poetica e letteratura (1968-1984); e in effetti, dovendone dare una prima sommaria definizione, bisognerebbe dire che si tratta di una raccolta di scritti di poetica, ventisette fra saggi e articoli pubblicati in massima parte negli ultimi dieci anni, corredata da alcuni studi critici su autori italiani e stranieri (per la precisione, Flaubert, Kafka, Saba, Montale, Amelia Rosselli, Jiri Orten, Ignacio de Loyola). Un'indicazione simile, tuttavia, sarebbe almeno in parte fuorviante, perché fa pensare a un'opera di tipo specialistico, rivolta ai professionisti della letteratura; mentre questo libro è anche qualcos'altro. Ma procediamo con ordine; dal titolo, anzitutto. La Dama non cercata è l'Ispirazione, scritta proprio così, con la maiuscola. L'Ispirazione è ciò che consente al poeta di essere tale, ossia di offrire un contributo al farsi della poesia. Infatti, sostiene Giudici, non è il poeta a creare il "poema", cioè il componimento poetico: bensì il poema a creare se stesso attraverso la persona del poeta, che è soggetto patiens e non agens. li poeta si illude di progettare e fabbricare poesia; in realtà può soltanto scoprirla, ossia, etimologicamente, inventarla. Come la natura: perché la poesia (e qui il richiamo a Schiller è esplicito) non è altro se non natura ritrovata e riconquistata. Per natura, Giudici intende anzitutto lo stato naturale della lingua: la lingua poetica è sostanzialmente natura della lingua ritrovata, riappropriazione della lingua nella suà naturalità: "misteriosa transustanziazione che restituisce (... ) la parola usuale e trita a una condizione di rinnovata immediatezza ed efficacia". In un certo senso, dunque, la tore, esiste indipendentemente da lui; egli può solo farsene docile interprete, cercando di riconoscerla. Non, si badi, cercandola: la Poesia, al pari dell'Ispirazione, è "una dama capricciosa e difficile", che non si concede a chi la insegua con troppa insistenza. La si può incontrare, e talvolta nelle circostanze e nei luoghi (nelle parole) più inattesi: ma alla ricerca, inesorabilmente, sfugge. Non è difficile ricondurre questa nozione di poesia a una serie di riferimenti storici precisi. In primo luogo, alla poetica pascoliana del "fanciullino"; ma anche alla "novità" del dolce stile, quale viene espressa dal Bonagiunta dantesco, e, più in generale, a tutti i richiami ai valori della naturalezza e della spontaneità espressiva ricorrenti nella storia letteraria, specialmente dal romanticismo in poi. Ovviamente l'istintività non c'entra per nulla, e nemmeno la scarsità di elaborazione formale: ma il fatto è - come dice Giudici ricordando un brano di Yeats - che un lavorio di ore su un solo verso è inutile, se non arriva a trasmettere un'impressione di facilità e di immediatezza. Il bersaglio polemico è dunque costituito dall' "intenzionalità", ossia dal prevalere del progetto sull'ispirazione, della "letteratura" sulla "vita": infine, dall'illusione che sia possibile costruire meccanicamente, tramite l'applicazione a freddo di una serie di operazioni predeterminate sul linguaggio, la realtà organica e vivente di un compoesia (anzi: la Poesia) pre-esiste allo scrit- Giovanni Giudici (foto di Fulvia Farassino). ponimento poetico. Se la condanna del velleitarismo programmatico e dell'eccesso di razionalizzazione (tipici della avanguardie) è risoluta e seriza appello, anche la scelta del dialetto appare a Giudici come una sorta di scorciatoia indebita. È vero che la lingua poetica contiene in sé qualcosa di intimamente estraneo rispetto alla lingua della comunicazione, ma è soluzione troppo facile presupporre siffatta estraneità sotto forma di adozione di un lessico a parte. L'autentica poesia dei nostri tempi deve sorgere proprio dalle bassure del parlare comune, dalla lingua degradata, inflazionata, inquinata dell'informazione quotidiana. Ma perché questo avvenga, non bastano la volontà e il lavoro del poeta; occorre che la Poesia lo tocchi, lo visiti. Di conseguenza alla Poesia è necessario disporsi con discrezione e umiltà: "con lei non bisogna esagerare nel chiedere, bisogna aspettarsi molto poco per ottenere (e non è detto) qualcosa". "Chiedere poco alla Poesia" diventa quindi (come il più disinvolto "Primo: non strafare") una sorta di motto, una regola di comportamento: quasi una moralità, prima ancora che una prescrizione o un proponimento di poetica. Ed è qui, mi sembra, che il libro di Giudici conosce i suoi accenti più intensi e persuasivi. Le istanze teoriche che egli esprime sono certo condivisibili anche in astratto; ma, in astratto, lo potrebbero essere anche posizioni diverse, e poco meno
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