Linea d'ombra - anno II - n. 11 - settembre 1985

La zattera della Medusa di Géricau/t (1819). trova il proprio primo materiale di rappresentazione - rivestisse gli attributi di spazio allarmante e sacrale il cui attraversamento non poteva andare esente da un sospetto di empietà. La navigazione, dunque, quale esperienza del limite, configurazione intensiva del tema del viaggio. Le metafore marine si sviluppano quindi all'interno di un constesto mitico-religioso che è insieme la radice della loro ampia significatività umana. È questo il quadro che fa da sfondo alla comparsa della configurazione completa del naufragio con spettatore nelle pagine del II libro del De remun naturae. Lo spettatore di Lucrezio incarna l'ideale del saggio epicureo che trova il proprio equilibrio nella capacità di osservare con distacco le vicende del mondo; l'immagine è anche una rappresentazione della concezione classica della teoria come contemplazione. Non più classica è però la scena nella sua interezza: il cosmo si offre allo sguardo come moto incessante e travaglio infinito, non struttura armonica e bene ordinata. Già all'origine dunque il paradigma metaforico mostra nel suo pessimismo sulla natura delle cose quell'elemento che lo renderà particolarmente adatto alla ricezione e interpretazione in ambito moderno. Sino a quando si resta nell'alveo di società chiuse e vincolate al predominio del principio d'autorità sembra che il motivo non riesca a sviluppare grandi possiblità d'evoluzione. Stretta al nesso naufragioempietà la posizione dello spettatore pare non poter trovare spazio sul piano dell'immagine. Il ruolo di chi osserva infatti è riservato al lettore, che dallo spettacolo del naufragio non deve trarre fonte di rassicurazione, ma motivo di ammaestramento morale. È lo schema seguito anche dal più grande naufragio della letteratura italiana -che inspiegabilmente Blumenberg non cita - quello dell'Ulisse dantesco. La svolta si ha con l'avvento dell'epoca moderna e di una Weltanschauung improntata al pathos per il nuovo e la scoperta in virtù della quale si sancisce le legittimità del rischio del navigare. Siamo al "vous etes embarqué" di Pascal; è adesso la posizione dello spettatore a essere sospettata e messa in questione. Chi guarda non è più in tranquillo possesso di sé ma è mosso - come dice Voltaire - da una curiosità bruciante, e nessuna ripresa riuscirà più a fare dell'immagine un ideale di vita. Goethe spettatore della battaglia di Jena osserva i fatti non dalla distanza della riflessione, ma dalla distanza "di chi l'ha scampata" (p. 83); e anche Herder, che fa del popolo tedesco il calmo spettatore degli eventi della rivoluzione in Francia, sa che non esistono più osservatòri liberi da margini d'insicurezza (si può assistere agli eventi rivoluzionari come a un naufragio da un'alta riva, ma solo a patto che "il nostro genio maligno, anche senza volerlo, non ci precipiti in mare", cit. p. 70). SCHEDE/SAGGI Nell'ottocento, assieme alla definitiva sostituzione della società alla natura come referente della metafora, l'ulteriore passo in avanti sarà l'identificazione del naufrago con lo spettatore. La distanza non è più quella spaziale ma quella temporale che separa il medesimo soggetto in due momenti diversi della propria esistenza: per Schopenhauer l'individuo è alternativamente preda dei flutti e capace di innnalzarsi al di sopra di essi mediante la riflessione. Con Nietzsche poi la condizione di naufrago si fa definitiva per l'uomo, la terraferma non è quella da cui si è partiti ma quella ritrovata dal naufrago salvato. In quest'orizzonte la posizione della teoria con il suo appoggiarsi alla netta distinzione osservatore/ osservato diviene ardua: "ci piacerebbe conoscere l'onda sulla quale andiamo alla deriva nell'oceano; solo, quell'onda siamo noi stessi" (p. 99) così scrive lo storico J .Burckhardt nel 1867. Si giunge infine a questo secolo, al tempo del "vivere col naufragio" (p. 105): non è più questione di salpare o di far ritorno in porto, la nostra nave, - o la nostra tavola -sono in mare sempre. Il linguaggio, nelle metafore di O. Neurath e P. Lorenzen, è una nave dalla quale non possiamo separarci - da riparare e ricostruire dunque in acqua. Le potenzialità espressive della figurazione sono state tutte esperite, il percorso analitico di Blumenberg si arresta di fronte all'interrogativo sulle possibilità di un nuovo inizio. Abbracciata nel suo insieme la storia dell'immagine si costituisce come un paradigma delle traiettorie salienti del sapere occidentale, in modo particolare mostra la capacità di dare evidenza icastica al passaggio più significativo di tale sviluppo: la transazione alla modernità. Le forme d'indagine più immediatamente apparentabili al lavoro di Blumenberg sono la Toposforschung (ricerca sui topoi) e la Begriffsgeschichte (o storia dei concetti). La sua metaforologia si distacca però con nettezza da entrambe già solo per il fatto di muoversi in uno spazio costruito sull'intersezione - e non all'interno - delle due diverse discipline, filologia e filosofia, alle quali quei due indirizzi di ricerca si richiamano. A delineare meglio le ragioni di autonomia dall'analisi della fortuna dei motivi letterari, può valere la pena di porla a confronto con un'affascinante saggio di E.R. Curtius su di un tema affine, pubblicato di recente dal Mulino (in Letteratura della letteratura). li saggio in questione è La nave degli Argonauti (1950), i temi che emergono dala ricostruzione della fortuna lettera85

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