Linea d'ombra - anno II - n. 11 - settembre 1985

pagnia. "Dài!", facevo io. "Tra due scapoli. .. ", e si capisce che mi ingegnavo di distrarlo, di spingerlo a cambiare discorso. L'esito massimo era che accennasse al "dopo", e non è che l'argomento si rivelasse molto più allegro. "Hai perfino paura di dormire" ricordava. "Sei ridotto come un vecchio straccio. Hai sempre sonno ed è la paura a tenerti sveglio. Chiudi gli occhi e non sai cosa ti aspetta. Intuisci che è giorno, oppure che è notte, e anche questo ti pare una cosa strana ... Molte cose te le sei dimenticate, e quando poi le ritrovi, tutte a brani, tutte a frammenti, non le capisci più. Ti senti stranito. Hai l'impressione che non siano più tue". Dapprincipio qualche dubbio lo esternavo, qualche obiezione la facevo, poi sempre meno. Fui tentato di procurarmi qualche libro, o di chiedere a un medico di illustrarmi ben bene quale possa davvero essere l'attività cerebrale di un individuo in coma di secondo o terzo grado. Ma in fondo, a parte che temevo di far la figura del tonto, a che cosa mi sarebbe servito? Cos'è che potevo replicare alle descrizioni di Ampelio? Mica - Dio ne liberi - potevo verificar di persona. I miei stessi consigli (che lasciasse perdere, che non ci pensasse più, che cercasse magari di farsi aiutare con qualche farmaco) diventavano sempre più timidi e rari. "Ma perché, tanto per distrarti, non ricominci a fare qualche lavoretto?" tantavo. Oppure, buttandola sullo scherzo: "Su con la vita adesso che stai meglio! Pensa a godertela: mangia, bevi, vai a donne ... ". In cambio ne ottenevo al massimo un barlume di sorriso che subito spariva per lasciargli un'aria ancora più assorta. Tornava a guardarsi le mani. Stava lì ed era già lontano. ,,lrT'I a insomma", sono tornato a pungolarlo un gior- ~ no, "tu cosa pensavi?" "Prima niente, te l'ho già detto. Se uno pensa, è già vivo. Ma non è che duri sempre allo stesso modo. Il brutto viene dopo". "Dopo quando?" "Quando cominci a sentirti solo e impotente", mi ha risposto. "Stai lì, vedi e non puoi farci niente". Stranito, solo, impotente: sono proprio i suoi aggettivi; e tra "vedi" e "guardi" fa sempre quella netta differenza. "Ma allora sarà stato quando già cominciavi a riprendere conoscenza ... '', ho detto ancora. "E che ne so io? Come faccio a risponderti? So solo che davanti a te hai quelle immagini, quei colori, quelle figure geometriche che vengono e vanno. Il tuo mondo è tutto lì. Che ci possa essere qualcos'altro non ti passa manco per la testa. Non può. La testa, in senso proprio, non ce l'hai nemmeno. Poi, forse, cominci a notare che qualche forma si ripete, forse ti aspetti che qualcuna ritorni e vada a collocarsi in un certo posto. In qualche modo cominci a sentire che non tutto dev'essere così casuale. Magari ritorni al buio, sparisci, chi lo sa; però è sempre lì che ti ritrovi e pian piano STORIE/BALDUINO arriva l'angoscia. Vuoi sapere quando? È quando cominci a dubitare che quelle immagini misteriose abbiano un senso, rappresentino un qualche cosa di preciso; al limite che vogliano comunicarti qualcosa in una lingua che non conosci e che è muta. Non so: uno schema, un grafico a colori e con tanti vuoti. Ma come faccio a spiegarti? Non è che hai l'intelligenza, che hai la parola, che hai un cervello tuo. Stai lì e basta". Feci presto ad accorgermi che quest'ultima era una conclusione ricorrente e che su quel "lì e basta" la vocetta stridula gli si strozzava in gola. Pareva anche, se appena appena il tentativo di racconto si protraeva al di là di una battuta, che lui stesso si mettesse a riascoltare le proprie parole: in un certo senso, che le contemplasse una ad una, così come, di nuovo affranto, smarrito, svuotato, aveva fatto e faceva con quelle sue figure ossessionanti. Il nostro, lo si sarà capito, era un dialogo per modo di dire. Non è neppure, forse forse, che gli interessasse un mio parere. Stavo al ruolo che il massiccio, il timido Ampelio mi assegnava e gli facevo da testimone, ecco tutto. Solo che prima o poi succedeva che mi prendesse un'improvviso desiderio di stacco, di fuga, e ogni volta finivo per colpevolizzarmi. Tra l'altro, nemmeno sapevo fino a che punto, fisicamente, soffrisse ancora. Spesso aveva dei forti mal di testa, dei giramenti, questo sì, ma erano notizie che gli strappavo a fatica. Non di quello, appunto, voleva parlare. Invece, quanto a me - è tempo ormai di dirlo più apertamente -c'erano momenti e giorni in cui l'avventura e le figure geometriche di Ampelio finivano per coinvolgermi in maniera preoccupante. Pensavo e ripensavo a quell'indistinto baluginare che sta tra la vita e la non vita; a quello che uno può vedere (se vede) subito dopo la morte, magari nei primissimi istanti; perfino alla possibilità che una certa figura (ma quale?) fosse l'immagine di un qualche misterioso dio del cervello. Figure: lettere o numeri mai? Arrivavo a interrogarmi, un po' per analogia, su quello che ognuno di noi potrebbe aver "visto'', o vissuto, sentito mentre stava dentro al sacco amniotico, "solo e impotente" anche lui. Più spesso ancora mi sentivo ossessionato dagli infiniti meccanismi che stanno nel nostro cervello ed era come mi sforzassi di spiarne mentalmente gli scatti incessanti. Nemmeno sul lavoro, mi accorgevo bene, avevo sempre la concentrazione consueta. Mi capitava di smontare un computer, e tac! Quanti canali, quanti Mips (per modo di dire) potrebbe avere una testa come quella di Ampelio? Quanti prima, mi chiedevo, quanti dopo? Non voglio dire, anche, che sempre mi fuorviassero i mobili diagrammi che facevo passare sul monitor, eppure ... Credo sia stato quello il periodo nel quale, se Ampelio veniva, ero addirittura io a provocarlo e quasi a torturarlo perché precisasse dettagli sempre nuovi. Per la prima volta nella mia vita, sono giunto, lo confesso, al punto da prendere dei sedativi, e però il fatto stesso che mi fossi guardato bene dal raccontare al medico quale 71

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