fermo e solamente il suono più crudo di una voce raggiunse per un istante l'altura - sì, era davvero solo. L'aria fresca era inospitale, per lui che aveva abitato una città più calda. L'unico albero del pianoro dondolava i suoi rami. Lo guardò. Prendeva tempo. Finché ritenne che non c'era motivo di aspettare oltre. E tuttavia aspettava. Gli occhiali dovevano dargli fastidio perché se li tolse di nuovo, respirò profondamente e li ripose in tasca. Aprì a quel punto il sacco, vi sbirciò dentro. Vi infilò quindi la mano magra e ne estrasse il cagnolino morto. Tutto di lui si concentrava unicamente nella mano che agiva, e mentre estraeva la bestiola teneva gli occhi profondamente chiusi. Quando li aprì, l'aria era ancora più limpida e le campane ripresero gioiose a sonare richiamando i fedeli al conforto della punizione. Il cagnetto sconosciuto era in luce. Si accinse allora a lavorare con metodo. Prese il cagnolino rigido e nero, lo depositò in un avvallamento del terreno. Ma, come se avesse già fatto parecchio, si mise gli occhiali, si sedette vicino al cane e cominciò a osservare il paesaggio. Vide molto nitidamente, e con certa inutilità, il pianoro deserto. Notò tuttavia con precisione che, da seduto, non gli era più possibile scorgere la cittadina sottostante. Respirò nuovamente. Rovistò nel sacco e prese la pala. E pensò al luogo che avrebbe scelto. Forse sotto l'albero. Si sorprese al pensiero di seppellire il cane sotto l'albero. Ma se fosse stato l'altro, il cane vero, lo avrebbe sepolto proprio dove gli sarebbe piaciuto essere sepolto se fosse morto: al centro esatto della piana, a fissare con gli occhi vuoti il sole. Allora, siccome il cane sconosciuto sostituiva l" 'altro", volle che, per maggior perfezione dell'atto, ricevesse esattamente quello che l'altro avrebbe ricevuto. Non c'era confusione nella mente dell'uomo. Si conosceva freddamente, senza alcun compiacimento. Di lì a poco, per eccesso di scrupolo, era oltremodo occupato nel cercare di determinare rigorosamente il centro della piana. Non era facile, poiché l'unico albero si ergeva spostato da una parte· e, quale falso centro, divideva asimmetricamente il pianoro. Di fronte alla difficoltà l'uomo si concesse: "Non è necessario seppellirlo al centro, anche l'altro lo seppellirei, diciamo, proprio dove in quel momento verrei a trovarmi io in piedi." Siccome si trattava di dare all'avvenimento la fatalità del caso, impronta di una circostanza esterna ed evidente - allo stesso modo dei bimbi nella piazza e dei cattolici nel contempo in chiesa - si trattava di rendere il fatto quanto più visibile alla superficie del mondo sotto il cielo. Si trattava di esporsi e di esporre un fatto e di non consentirgli la forma intima e impune di un pensiero. All'idea di seppellire il cane dove in quel preciso momento egli si trovava - l'uomo indietreggiò con un'agilità che il suo corpo piccolo e singolarmente pesante non sembrava permettergli. Gli era infatti parso che sotto i piedi si fosse disegnato l'abbozzo della sepoltura del cane. Cominciò quindi a scavare in quel punto con ritmici colSTORIE/LISPECTOR pi. Interrompeva di quando in quando per togliersi e poi rimettersi gli occhiali. Sudava penosamente. Non scavò molto, ma non perché volesse risparmiarsi la fatica. Non scavò molto perché lucido pensò: "Se fosse per il cane vero, scaverei poco, lo seppellirei in supèrficie." Credeva che il cane, in superficie alla terra, non avrebbe perduto sensibilità. Lasciò infine la pala, prese con delicatezza lo sconosciuto cagnetto e lo depose nella fossa. Che strano muso aveva il cane. Quando, con un tuffo al cuore, aveva scoperto il cane morto all'angolo di una strada, l'idea di seppellirlo lo aveva talmente rattristato e sorpreso che non aveva neppure avuto occhi per quel musino duro e con la bava secca. Era un cane strano e oggettivo. Il cane era un po' più alto della fossa scavata, e una volta ricoperto di terra sarebbe stato una insignificante protuberanza nella piana. Era esattamente quanto l'uomo voleva. Ricoprì il cane di terra e la spianò con le mani, sentendone attento e compiaciuto la forma nei palmi come fosse una carezza ripetuta. Il cane era adesso solamente un aspetto esteriore del terreno. A quel punto l'uomo si alzò, si ripulì le mani dalla terra, e non guardò più la sepoltura. Con certa soddisfazione pensò: credo di aver fatto tutto. Emise un profondo sospiro, con un innocente sorriso di liberazione. Sì, aveva fatto tutto. Il suo delitto era stato punito ed egli era libero. Ora poteva liberamente pensare al cane vero. E, cosa che fino allora aveva evitato, si mise immediatamente a pensare al cane vero. Il cane vero che in quel momento stava probabilmente vagando perplesso per le vie dell'altro comune, annusando la città dove non aveva più padrone. Si mise faticosamente a pensare al cane vero come se tentasse faticosamente di pensare alla sua vita ·vera. Il fatto che il cane fosse distante nell'altra città gli rendeva difficile il compito, nonostante che la nostalgia lo avvicinasse al ricordo. "Mentre ti facevo alla mia immagine, tu mi facevi alla tua", pensò allora, aiutato dalla nostalgia. "Ti ho chiamato J osé per darti un nome che ti servisse al tempo stesso da anima. E tu - come sapere che nome hai dato a me? Quanto mi hai amato tu più di quello che ti ho amato io!", rifletté desideroso di sapere. "Ci capivamo troppo noi due, tu col nome umano che ti ho dato, io col nome che mi hai dato tu e che non hai mai pronunciato se non con l'insistenza dello sguardo". "Mi ricordo di quando eri piccolo", pensò con allegria, "così piccolo, carino e gracile, scodinzolavi, mi guardavi e io scoprivo in te un modo nuovo di avere l'anima. Ma fin da allora cominciavi a essere un cagnolino che si poteva abbandonare ogni giorno. E intanto i nostri giochi diventavano pericolosi per tanta comprensione", rammentava l'uomo soddisfatto, "tu poi mi mordevi, mugolavi, e io ti scaraventavo addosso un libro e ridevo. Ma chissà cosa voleva già dire quel mio riso a contraggenio. Eri un cane che si poteva ogni giorno abbandonare." "E come annusavi le strade!", pensò l'uomo abbozzan67
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