Linea d'ombra - anno II - n. 11 - settembre 1985

approfittare del grido degli altri per emettere il proprio ululato, lei dimenticò, lei provò solo stupefatto spavento. E adesso questo silenzio anch'esso improvviso. Erano di ritorno alla terra, l'ingranaggio completamente fermo di nuovo. Pallida, espulsa da una chiesa, guardò la terra immobile da dove era partita e alla quale era nuovamente consegnata. Si ricompose pudica la sottana. Non guardava nessuno. Mortificata come il giorno in cui in mezzo alla gente l'intero contenuto della sua borsa era caduto a terra e tutto ciò che aveva avuto valore poiché chiuso e segreto, esposto nella polvere della strada aveva rivelato la meschinità di una vita intima di precauzioni: cipria, ricevute, penna stilografica, lei che raccattava al bordo del marciapiedi i ponteggi della sua vita. Si alzò dal sedile frastornata come fosse scampata a un investimento. Nonostante che nessuno le prestasse attenzione, tornò ad allisciarsi un'altra volta la sottana, faceva il possibile perché non capissero che era debole e screditata, con alterigia proteggeva le ossa rotte. Ma il cielo le turbinava nello stomaco vuoto; la terra che ai suoi occhi saliva e scendeva restava, a intervalli, la terra che è sempre così difficile. Per un attimo la donna, in una stanchezza di muto pianto, volle tendere la mano verso la difficile terra: la sua mano si tese come quella di uno storpio mendicante. Come se avesse inghiottito il vuoto, il cuore sconcertato. Solo questo? Solo questo. Violenza, solo questo. Riprese a camminare in direzione degli animali. La prostrazione delle montagne russe l'aveva infiacchita. Non riuscì ad avanzare di molto: dovette appoggiare la fronte alle grate di una gabbia, esausta, il respiro corto e superficiale. Da dentro la gabbia il quati la guardò. Lei lo guardò. Non ci fu scambio di parole. Non avrebbe mai potuto odiare il quati, che nel silenzio di un corpo indagatore la osservava. Turbata, distolse lo sguardo dall'ingenuità del quati. Il quati curioso che le faceva una domanda così come fa domande un bambino. E lei che distoglieva lo sguardo, gli nascondeva la propria mortale missione. La fronte era talmente appoggiata alle grate che per un istante le sembrò di essere lei nella gabbia e che un quati libero la stesse osservando. La gabbia continuava a essere dalla parte dove lei era: emise un gemito che parve provenire dalla pianta dei piedi. Poi un altro gemito. Allora, nata dal ventre, di nuovo risalì, implorante, in lenta onda, la voglia di uccidere - i suoi occhi si bagnarono grati e scuri di quasi felicità, non era ancora l'odio, per ora solo una tormentata voglia di odio come un desiderio, alla promessa di uno schiudersi crudele, un tormento come d'amore, la voglia di odio che si prometteva sangue sacro e trionfo, lei, la femmina respinta, si era spiritualizzata nella grande speranza. Ma dove, dove trovare l'animale che le insegnasse a leggere il suo proprio odio? L'odio che le apparteneva di diritto ma che nel dolore non riusciva a raggiungere? Dove imparare a odiare per non morire d'amore? E da chi? Il mondo a primavera, il mondo delle bestie che a primavi;g_~_i umanizzano in zampe che graffiano ma senza far STORIE/LISPECTOR male... oh, non più quel mondo! non più quel profumo, non quell'ansimare sfibrato, non più quel perdono in tutto ciò che un giorno morirà quasi fosse esistito per darsi. Non più il perdono, se quella donna avesse perdonato ancora una volta, una sola volta, la sua vita sarebbe stata perduta - emise un lamento crudo e mozzo, il quati trasalì -, chiusa in gabbia guardò intorno a sé, e siccome non era persona cui si prestasse attenzione, si raggomitolò come una vecchia assassina solitaria, un bambino passò correndo senza vederla. Riprese a camminare, rimpiccinita ora, dura, i pugni di nuovo barricati nelle tasche, l'ignota assassina, e tutto le era prigioniero nel petto. Nel petto che sapeva solo rassegnarsi, che sapeva solo sopportare, sapeva solo chiedere perdono, sapeva solo perdonare, che aveva imparato solo ad avere la dolcezza dell'infelicità, che aveva imparato solo ad amare, ad amare, ad amare. Immaginare che forse non avrebbe mai provato l'odio di cui era sempre stato fatto il suo perdono, le fece gemere il cuore senza ritegno, prese a camminare così svelta che pareva avesse trovato un'improvvisa destinazione. Correva quasi, le scarpe le facevano perdere l'equilibrio, e le imprimevano una fragilità di corpo da ridurla nuovamente a una femmina da cattura, i passi avevano automaticamente assunto l'implorante disperazione dei fragili, lei che altro non era se non una fragile. Ma se avesse potuto togliersi le scarpe, avrebbe potuto evitare la gioia di camminare scalza? Come non amare il terreno che si calpesta? Gemette di nuovo, si fermò davanti alle sbarre di un recinto, accostò il viso caldo al freddo rugginoso del ferro. Gli occhi profondamente chiusi, cercava di seppellire la faccia nella durezza dell'inferriata, la faccia tentava un impossibile passaggio dentro le strette sbarre, così come prima aveva visto la scimmietta neonata cercare nella cecità della fame il petto della scimmia. Un conforto passeggero le venne dal modo come le sbarre, opponendole la resistenza di un ferro diaccio, parevano odiarla. Adagio aprì gli occhi. Gli occhi venuti dalla sua stessa oscurità non avevano visto nulla nella sbiadita luce del meriggio. Rimase a respirare. Gradualmente ricominciò a distinguere, gradualmente le forme si andarono solidificando, lei stanca, schiacciata dalla dolcezza di una stanchezza. La sua testa si alzò indagando rivolta agli alberi dai nascenti germogli, gli occhi videro le piccole nubi bianche. Senza speranza, sentì la leggerezza di un ruscello. Abbassò nuovamente la testa e rimase a guardare il bufalo in lontananza. In una giacca marrone, respirando priva d'interesse, nessuno interessato a lei, lei interessata a nessuno. Una sorta di pace infine. La brezza che si muoveva nei capelli della fronte come in quelli di una persona morta da poco, con la fronte ancora sudata. Guardava estranea quel grande terreno asciutto circondato da alte inferriate, il terreno del bufalo. Il bufalo nero era immobile in fondo al terreno. Poi si mise a passeggiare in lontananza, con i lombi stretti, i lombi concentrati. Il collo più grosso dei fianchi contratti. Visto di fronte, la grande testa più larga del corpo impediva la vista del resto, come una testa mozza. E sulla te65

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