62 DISCUSSIONE/PICCIOLI moduli shakespeariani, con le battaglie viste di sguincio o episodicamente, mentre i raccordi e la visione complessiva sono demandati al racconto che la cieco Dhritarashtra, il tragico motore di tutta la sciagura, vittima e insieme complice del destino, fa il suo cocchiere, dotato, per l'occasione, di uno sguardo portentoso che gli consente di vedere anche quanto succede fuori dal suo orizzonte. Una bella soluzione è anche quella riguardante Vyasa, il leggendario autore del poema, che qui è contemporaneamente narratore e attore. È lui a evocare all'inizio i personaggi, raccontando la storia a un ragazzino (lontano discendente degli eroi di cui si appresta ad ascoltare le vicissitudini) e dettandola a Ganesha, un misterioso scrivano dalla testa d'elefante, che poi si manifesterà come Krishna, incarnazione di Vishnu. Ma mentre racconta, e commenta (i suoi dialoghi col ragazzo fanno da "coro" a quanto vediamo), Vyasa interviene anche attivamente nella sua stessa narrazione, partecipando alle discussioni, realizzando soluzioni impreviste, addirittura procreando Dhritarashtra e Pandu, i due capostipiti delle famiglie rivali. Così il racconto si fa storia in atto e questa racconta, in un vertiginoso gioco di rimandi e di scomposizione dei piani temporali che non ha nulla di artificioso o di letterario, ma piuttosto fa pensare a una nascosta struttura ontologica. Così come non è mai letteraria la lingua adottata da Carrière, egualmente lontana dall'aulicità del classicismo francese e dalle approssimazioni e slabbrature del parlare quotidiano. È una lingua con un lessico scarno, preciso e concreto, in cui non la semantica ma il ritmo e la sintassi sono evocativi e gli effetti nascono, con grande semplicità, da accostamenti insoliti dei termini. Del resto non c'è mai nulla di pesante o innaturale: le intricatissime vicende degli eroi e degli dei, con le sovrapposizioni, le duplicazioni, le ambivalenze, i residui rifunzionalizzati che rendono così contorta e disperante per noi occidentali la mitologia indiana, qui si snodano sempre con aerea leggerezza. Tutto sembra agevole, tutto diventa plausibile e limpido: che un asceta si trasformi in gazzella e, ferito a morte proprio nel momento più dolce del piacere d'amore, lanci un terribile incantesimo contro chi ha scagliato la freccia; che una fidanzata ripudiata muoia e rinasca come guerriero deciso a vendicarsi di chi le fece torto; che un re sconfitto si nasconda in fondo a un lago gelato e da qui canti il suo lamento ... Perché noi vediamo realmente l'orgasmo della gazzella innamorata trasformarsi in un'agonia maledicente, vediamo gli erramenti sofferti e rabbiosi della fanciulla-guerriero alla ricerca del suo offensore, vediamo il re rattrappito nel suo trasparente involucro di ghiaccio. E questo senza scene che non siano quelle naturali dei quattro elementi: terra, acqua, fuoco, che serpeggia in incantesimi lustrali, scalda i provvisori focolari di nobili in esilio, arde distruttivo durante la battaglia; e aria, che diventa scena quando vibra per il saettare delle frecce o diffonde note e rumori e grida, musicalmente avvicinando e distanziando le presenze. Se si ricorre ad arredi, si scelgono semplicissimi: fascine di canne, stuoie, drappi e coperte, ruote di carro, graticci, qualche vaso di coccio, alcune spade, una scala a pioli. Ma se un attore attraversa di corsa lo spiazzo facendo rotolare accanto a sè una ruota, seguito a spalla da un compagno in armi, noi vediamo in realtà un carro da guerra, con auriga e guerriero; e un graticcio di vimini può essere una barricata protettiva, un'arma da guerra, un giaciglio d'amore, il letto di morte di un guerriero trafitto da decine di dardi. Si dirà che così è da sempre il vero, grande teatro popolare. Ma a parte il fatto che forse l'avevamo scordato, in tanta ricerca spesso soltanto formale e intellettualistica o in tanto dilagare di neonaturalismo e di poeticità, resta comunque inedito lo schiudersi rivelatore di un mondo autosufficiente, l'apparire e dileguarsi di forme. Basti pensare ai passaggi da una fase all'altra del racconto, alle sue snodatissime giunture: mentre un'azione si smorza, germina davanti a noi la seguente, con attori e cose che appaiono come sorretti e portati da un flusso vitale che circola in quello spazio incantato. E non c'è mai il minimo scivolamento nella solennità veneranda o nella ricostruzione pedante di una cultura esotica inevitabilmente di maniera. Con grande serietà e semplicità Brook si confronta con un mondo mitico millenario e ricorre a una vastissima gamma di registri, senza alcun timore della rozzezza o dell'effetto. Lo spettatore può pensare al gusto per l'avventura dei romanzi salgariani, non ai bavardages di Bhagwan Rajneesh; ci sono Omero e Shakespeare, non Hesse. La lievità ironica con cui il regista accorda situazioni e personaggi dà ragione a quel critico tedesco che ha definito questo Mahabharata un Anello del Nibelungo scritto da Mozart anziché da Wagner. Merito anche di attori che sanno creare immagini su immagini solo partendo dalla plastica duttilità del proprio corpo: mai realistici, mai stilizzati, sempre soltanto "veri". Anch'essi andrebbero ricordati tutti, da Yoshi Oida a Ryszard Cieslak, da Mallika Sarabhai a Bruce Myers, da Andrzey Seweryn a Vittorio Mezzogiorno, da Pascaline Pointil..: !art a Sotigui Kouyate. E Maurice Bénichou, grandissimo nel proporre, persino col passo, la numinosa ambiguità di Krishna: uomo e dio, astuto e protettivo, intrigante e linea~ re, sereno e compartecipe. Tutti, anche quanti qui non cito per non allungare un elenco che poco direbbe a chi legge, restano nella memoria dello spettatore, che continua a dialogare con gli esseri da loro richiamati in vita. Perché questa favola remota riguarda anche noi, come il ragazzino cui Vyasa la racconta: "Ragazzo: Di che cosa parla il tuo poema? Vyasa: Parla di te. Ragazzo: Di me? Vyasa: Sì. Racconta la storia della tua stirpe, di come sono nati i tuoi antenati, di come sono cresciuti, di come si svolse una guerra immensa. È il grande poema del mondo. Se l'ascolti con attenzione, alla fine sarai un altro, perché è una storia pura e totale, che cancella gli errori, sveglia l'intelligenza e dona una lunga vita."
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