Linea d'ombra - anno II - n. 11 - settembre 1985

60 DISCUSSIONE/PICCIOLI una dinamica interna che lo fa come respirare. Ne deriva un'impressione di fluidità e di elasticità, di sotterranea scorrevolezza che raggiunge e sostiene anche i moti di più apparente insignificanza e casualità. I costumi sono quasi sempre abiti da sera anni Cinquanta: le donne, su tacchi altissimi, fasciate di satin, gli uomini in abito scuro e doppiopetto, costretti in scricchiolanti scarpe di coppale, tipo festa tedesca negli anni adenaueriani; oppure, più raramente, abiti semplici e andanti, senza riferimenti cronologici precisi: tuniche più o meno lunghe per le donne, pantaloni e camicia un po' spiegazzati per gli uomini. Costante è la contaminazione di generi (cabaret, musichall, rivista, show televisivo, acrobatica, danza classica, cinema), spesso parodiati o semplicemente citati, e di cultura alta e cultura bassa, specialmente nella colonna sonora (ove Purcell e Beethoven, Brahms e Sibelius si alternano alle piu melense melodie popolari tedesche, Judy Garland e Louis Armstrong a ninnenanne e filastrocche infantili): è una mescidanza continua di linguaggi, sorvegliatissima per altro, in funzione di un teatro totale che sussuma ogni forma espressiva nel segno prioritario di una fisicità utilizzata per costruire immagini. Caratteristico è anche il coinvolgimento del pubblico, con gli attori che scendono in platea magari per offrire il tè (duplicando la cerimonia borghese che intanto si svolge sul palco), o per chiedere la monetina necessaria ad avviare un cavalluccio meccanico o per farsi allacciare un gancio del vestito; ma soprattutto con le sfilate da passerella che si prolungano nella platea: una specie di ammiccante abbraccio che avvolge gli spettatori in una ricerca di complicità e insieme di comunicazione. E infine i due segni più celebrati. Uno è il ritmico pulsare di pieni e di vuoti, sia in senso proprio (a scene in cui un solo attore si avventura sulla scena succedono scene collettive), sia nel senso dei flussi di energia: a momenti di estenuata lentezza o di tensione diluita in frammenti di quotidianità ottusa si alternano accelerazioni frenetiche o momenti di grande visività spettacolare e coreografica. L'altro è la geometria degli spostamenti e la conseguente creazione degli spazi. I famosi attraversamenti in diagonale o la disposizione lungo file orizzontali in cui a volte la compagnia si muove verso il fondo o verso il proscenio sono delle vere e proprie misurazioni dell'estensione astratta della scena. Servono a sgombrare il vuoto, cioè appunto a creare l'ambito entro cui poi instaurare e scomporre lo spazio con la propria presenza corporea. Perché qui della strutturale ambivalenza tra essere un corpo e avere un corpo si sottolinea il primo aspetto: è il corpo dell'attore, nella sua immediata presenza, che crea lo spazio, lo rende percepibile a sè e quindi allo spettatore. Ma negli spettacoli della Bausch (questo "Beckett della danza", secondo la fulminante definizione di Rita Cirio) tale spazio non diventa mai realmente abitabile: gli attori vi tracciano itinerari che non riescono mai ad aggregarsi intorno a un luogo, per riprendere la terminologia heideggeriana. È uno spazio in frantumi, che non consente mai l'apparire di un mondo e il modellarsi unitario del tempo: su di esso si avvia inevitabilmente una temporalità ripetitiva, priva di spessore, in cui si consumano la dissonanza e lo scompenso di 0gni intenzionalità, in cui declina ogni progetto, in cui si celebra grottescamente, come nelle medievali danze della morte, la disarticolazione della nostra contemporaneità. Dompletamente diversa l'idea di teatro sottesa al Mahabharata di Peter Brook. Se nella Bausch l'attore crea il personaggio partendo da sè (non in senso direttamente autobiografico e tanto meno psicologistico, ma còme possibilità di autoriconoscimento nel momento dell'oggettivazione in una forma), qui l'attore crea immagini smemorandosi di sè, e la sua verità emerge dal rapporto col personaggio, cioè dal modo in cui declina le proprie maschere. Se là il teatro si origina dalla presenza fisica che solo in seconda istanza si fa racconto, qui è l'opposto: il teatro nasce dal racconto, è la narrazione che si fa immagine. Se là lo spettacolo è, almeno in prima approssimazione, senza principio e senza fine, ogni suo momento rinviando a un altro, ogni spettacolo a quello successivo, in una geometria di rinvii senza centro, al cui interno lo spettatore può scegliersi un percorso narrativo o moltiplicare le interpretazioni, qui, nelle nove ore in cui si dilata lo spettacolo, si percepisce il respiro di un organismo vivente, se ne coglie il volume armonioso, dalle iniziali genealogie divine alla catarsi finale. Se nelle creazioni della Bausch i linguaggi della spettacolarità vengono scardinati dalla loro storia, fatti reagire l'uno con (o contro) l'altro, con un rigore qn::i_~; sdentifico di scomposizione e riformalizzazione polifonica, qui è saldissimo il legame con la tradizione, soprattutto con quella "grande popolare", nel senso in cui anche Shakespeare può essere popolare, e con quella che si potrebbe definire antropologica: vi si distillano infatti i risultati di anni di indagini sul campo alla ricerca di tecniche e incantamenti della ritualità e della teatralità "primitive" (e di cui una provvisoria sistemazione era stata disposta in precedenti spettacoli di Brook, quali Les Jks e La conférence des oiseaux). Se a Wuppertal lo spazio è una dimensione evocata dalla soggettività corporea degli attori, qui lo spazio è veramente un luogo da cui si origina un mondo, entro cui si squaderna il gioco di cielo e terra, mortali e divini. E i gesti, il movimento stesso degli attori sono innanzi tutto una risposta alla pienezza di questo mondo che si disvela e che racchiude in sé ogni potenzialità dinamica. Certo, ad Avignone la suggestione naturale del posto scelto per lo spettacolo era tale da predisporre lo spettatore ad accettare ogni magia. Un percorso in battello sul Rodano, una breve passeggiata attraverso chiari e solitari avvallamenti fino a una cava, chiusa sul fondo e lateralmente da un'altissima parete di roccia, interrotta a una ventina di me-

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