LANUOVAPICCOLABORGHESIA E ILSUOSTILE Alfonso Berardinelli Semplificando un po' le cose (o forse complicandole irrimediabilmente), provo a enunciare alcune tesi riguardanti la situazione della cultura letteraria italiana. Lo schema interpretativo che ho in mente riguarda grosso modo gli ultimi dieci anni ed è, come si dice, uno schema aperto. Tanto aperto da farmi sospettare che non sia neppure uno schema, ma solo un breve elenco di constatazioni macroscopiche. Mi scuso perciò in partenza per la genericità delle osservazioni che seguono. Ma mi pare che nonstante la pubblicazione, negli ultimi anni, di alcune ponderose opere storiografiche (riguardanti però l'intero Novecento) continui a mancare il presupposto di una descrizione attendibile: cioè una visione d'insieme dei fenomeni generali di cultura che determinano il destino sociale (il destino reale) delle opere letterarie contribuendo a disegnare la loro stessa identità storica. Con gli anni Settanta avvengono una serie di trasformazioni sociali e culturali particolarmente rapide e impetuose, che modificano in profondità l'idea di letteratura che aveva dominato almeno nei due decenni precedenti. Queste trasformazioni riguardano probabilmente diverse aree culturali e letterature nazionali fra loro in comunicazione, ma qui preferisco considerarle, per doverosa prudenza, come un fenomeno italiano: e perciò nella loro portata provinciale, locale e periferica, anche se forse interessante anche al di là dei nostri confini. Ceto emergente Fra il 1976 e il 1978 la sconfitta politica della sinistra, di tutta la sinistra, sia di quella nuova che di quella tradizionale, mostrava caratteristiche non momentanee, segnando la fine di un grande ciclo storico, il cui inizio può essere fatto risalire almeno al 1945, ma probabilmente molto più indietro: al 1917 e oltre. Per alcuni anni, in tutto l'occidente industrializzato il fantasma della Rivoluzione aveva ricominciato a circolare con minaccioso ottimismo. Sociologicamente, questo fantasma rivoluzionario aveva trovato corpo in movimenti, strati e soggetti sociali di nuova formazione. Ma considerando le cose da un punto di vista idelogico e di cultura politica, dalla metà degli anni Sessanta in poi, se si escludono alcune originali elaborazioni di élite, c'era stato piuttosto un ritorno di tutta la tradizione rivoluzionaria e ribellistica occidentale, nelle sue numerose componenti e varianti: neo-marxista e neo-anarchica, surrealistico-trotzkista e situazionista, leninista e luxemburghista, anarco-sindacalista e marxistaleninista, neo-stalinista e diffusamente contro-culturale. L'operaio-massa e lo studente, il tecnico e l'impiegato "proletarizzati" erano certamente figure sociali nuove: sopratutto in Italia. Ma il crogiolo di ideologie e culture entro cui il movimento o i movimenti si muovevano era carico di una lunga tradizione in cui tutto si fondeva e si rimescolava dando luogo a combinazioni inaspettate, spesso molto confuse e a volte decisamente grottesche. Le tendenze neo-ortodosse e tradizionaliste, per esempio, come il maoismo stalinista e l'operaismo anarco-sindacalistico, erano piuttosto citazioni che attualizzazioni del passato rivoluzionario: su di esse gravava fin dall'inizio il sospetto del kitsch culturale, del travestimento. Intorno alla metà degli anni Sessanta, la nuova sinistra era finita, si irrigidiva nelle formazioni più o meno coerentemente terroristiche, o andava a costituire tutta una serie di variopinti ghetti contro-culturali, misticheggianti, "creativi" a cui poco dopo sarebbe stata applicata l'etichetta forse discutibile ma non del tutto arbitraria di Narcisismo di massa. Intanto nel Pci si parlava da qualche tempo con molta insistenza di Cultura di governo: di passaggio, cioè, da una (ritenuta superata) cultura di opposizione a una nuova (più adeguatamente attuale) cultura di governo. Si parlava, come tutti ricordano, di penetrazione e diffusione capillare all'interno degli organismi e delle istituzioni del decentramento sociale e territoriale dello Stato. Quella che alcuni anni prima, intorno al 1968, era stata la ricerca di un nuovo rapporto, più efficace e liberatorio, fra teoria e prassi (critica dell'intellettualità separata, ecc.), intorno al 1975 diventava dunque attivismo più militarizzato che militante (area "eversiva") o pragmatismo amministrativo (area del Pci). I ghetti neo-religiosi e neo-orfici, i gruppi dell'auto-coscienza e della creatività, d'altra parte, passavano dalla contro-cultura alla sotto-cultura, da uno spirito di separatismo critico, di secessione e opposizione a una nuova subalternità nei confronti del supermarket culturale. Nel suo insieme, la generazione ribelle del '68 era ormai o strato sociale emarginato che rivendicava per sé spazi e diritti, o nuovo "ceto culturale emergente", ricco di bisogni, cioè ricco di ambizioni e di strategie (o tattiche) egemoniche. Su questo sfondo, perfino la cosiddetta riscoperta della poesia e della letteratura si presentava perciò come un fenomeno a due facce: a) Come mito della creatività incondizionata e compensatoria, una pura consolazione in attesa di una promozione (spettacoli, letture pubbliche, festival). b) Come scienza, di oggetti letterari accumulati, da catagolare, vivisezionare, amministrare nella costruzione di nuovi ruoli del tutto indifferenti alla ricerca di una reale funzione ("professionalizzazione" a tappe forzate, culto conformistico della competenza disciplinare, ecc.). La nuova middle class culturale, protagonista di questi processi, stava perdendo rapidamente il super-io sociale e politico che l'aveva sospinta alla rivolta e all'impegno, e non riusciva ormai a vedere più niente al di fuori di sé: né popolo, né operai, né esclusi, né oppressi, né altre culture. ... o Piccola Borghesia? La generazione politicizzata e ribelle, contestatrice e rivoluzionaria di qualche tempo prima, mostrava quasi all'improvviso un volto o una maschera diversi. Sembrava realizzare davvero alcune malevole profezie. Dal '68 era nato il nuovo Ceto Medio, la nuova Middle Class, la nuova
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