QUANDOUNSIKH INCONTRAUNALTROSIKH Khushwant Singh r:, uando un sikh incontra un altro sikh tutti e due dico- ~ no "Sut Sree Akal", che significa semplicemente "Dio è verità". Più spesso uno inizia con tono altisonante "Wah Guru jee ka Khalsa", che significa "I sikh sono i prescelti da Dio", e l'altro si unisce a lui a voce ancora più alta dicendo "Wah guru jee kee Fateh" - "E vinca il nostro Dio". Quest'ultimo saluto si sta diffondendo più dell'altro. La ragione è ovvia. Dire solo "Dio è verità" è insignificante quanto l'abitudine europea di riferirsi alla fase del giorno facendola precedere da "buon" o "buona". L'altro modo è più ampio. Esprime una verità e una speranza. Che i sikh siano i prescelti da Dio è cosa su cui nessun sikh ha dei dubbi - lo stesso Guru li ha chiamati Khalsa, ovvero gli eletti. E cosa c'è di meglio se non augurarsi che il proprio Dio vinca sempre? Benché i Sikh credano giustamente di essere gli eletti, ci sono altre razze che si considerano tali, nazioni che si ritengono le migliori e sette che parlano di sé come del sale della terra. Sta di fatto che nella stessa India altre comunità denigrano i sikh definendoli gente strana e raccontano un sacco di storielle in cui li si prende in giro. I sikh ignorano queste frecciate e nel loro linguaggio di tutti i giorni ostentano modi aristocratici. Così tutte le persone senza barba sono Kirar, che letteralmente significa codardo, o Sirghassa, che significa calvo-perché-è-stato-picchiato-in-testa. Un sikh parla di sé come se fosse uguale a altri centoventicinquemila o semplicemente come un esercito. Non è vero che i sikh amino soltanto combattere. Nonostante le molte croci di guerra della regina Vittoria vinte sul campo di battaglia i sikh sono di fondo un popolo amante della pace. Sono stati in pratica la prima comunità a dimostrare l'efficacia della resistenza passiva come arma politica (e paradossalmente anche la prima a organizzare un'insurrezione pianificata contro il dominio britannico). L'unica cosa che realmente li caratterizza è lo spirito pionieristico. Benché siano poco più di quattro milioni, difficilmente si trova una nazione al mondo in cui non vi sia un sikh - tranne forse l'Arabia Saudita e ora il Pakistan. Ci sono sikh sentinelle, poliziotti e tassisti in tutti i paesi, dalla Cina del Nord alla Tmchia. Ci sono sikh contadini e artigiani in Australia, Sud Africa, Stati Uniti, Canada e nei paesi del Sud America. Ci sono sikh medici, venditori ambulanti e indovini in ogni parte d'Europa. Nelle professioni che i sikh scelgono non c'è alcun elemento razziale o ereditario. Un contadino nel Punjab può diventare usuraio a Bombay, falegname in Africa Orientale, raccoglitore di frutta in California, taglialegna in Canada. Se necessario, può ammaestrare una troupe di pappagallini a scegliere le carte che predicono la sorte ai matelots di Marsiglia oppure accentuerà il suo aspetto orientale per leggere la mano delle signore nei luna-park. In mancanza d'altro può sfruttare il suo fisico eccellente e far soldi con dimostrazioni di forza. E questo mi porta alla storia del mio incontro con Narinjan Singh - contadino nel Punjab, domestico a Shanghai, raccoglitore di frutta a San Francisco, ragioniere a Vancouver e lottatore libero a Toronto. È a Toronto che ci incontrammo. Per parecchi giorni avevo letto il suo nome su giornali e locandine. A quanto pareva era proprio un personaggio, in Canada, nel mondo del catch, e doveva combattere contro un certo Mazurki, un polacco che lavorava anche nel cinema. Narinjan Singh era conosciuto come Nanjo il Cattivo e Mazurki come Iron-Mike, l'uomo di ferro. L'incontro era senz'altro importante, e in ogni caso Nanjo doveva essere un tipo interessante. Così mi recai ali' Auditorium. Il Maple Leaf Garden Auditorium era stipato di quasi ventimila canadesi - uomini, donne e bambini. Quando mi presentai a comprare il biglietto due robusti poliziotti mi raggiunsero e dissero in tono amichevole: "Stia in guardia". Mi scortarono al mio posto e uno di loro rimase nel corridoio. Dopo alcuni incontri preliminari il microfono strombazzò: "Attenzione prego, attenzione prego. Eccoci arrivati all'ultimo incontro, tra l'indiano Nanjo Singh e Iron-Mike Mazurki, di Hollywood, California. Tempo - venti minuti. Arbitro - Steve Borman". Un fragoroso applauso si levò mentre l'alto e imponente polacco veniva giù per il corridoio. Si inchinò ai suoi ammiratori e salì sul ring, seguito da una dozzina di cacciatori di autografi. Un minuto dopo arrivò l'indiano, in turbante giallo e vestaglia verde, e la folla fischiò sonoramente. Per nulla turbato dall'accoglienza, raggiunse con difficoltà il suo angolo, si tolse il turbante e si inginocchiò a pregare rivolto verso la Mecca - alla maniera musulmana. Poi si spogliò. Era un uomo basso, tarchiato, muscoli scuri rigonfi e ampio torace peloso. L'arbitro disse loro alcune parole al centro del ring, e poi il combattimento iniziò. Nanjo era certamente il "duro" più impressionante nel mondo della lotta in Canada. Era anche un attore eccellente. Da vero sikh si rivolse verso la Mecca come i canadesi si aspettavano che facesse. Bruscamente respinse i cacciatori di autografi e colpì un paio di ragazzi che gli facevano le smorfie. Nel ring ficcò le dita negli occhi dell'avversario, l'acciuffò per i capelli e colpì. Di fatto venne meno a ogni regola del combattimento e tutti se ne accorsero tranne l'arbitro (il cui compito era di non accorgersi di niente). "È tutta una finta, sa", m'informò il mio vicino. "In realtà Nanjo è docile come un agnello. Un tipo simpatico, una volta che lo conosci". Tutti sapevano che si trattava di una finta ma questo non impediva che diventassero isterici, e quando Nanjo torse le braccia di Mazurki tutti parteciparono all'agonia del polacco con accorati "No! No!". E quando Mazurki schiacciò con tutto il suo peso Nanjo che inutilmente si contorceva per liberarsi, urlarono: "Ammazza il negro!". Andò avanti così per ben quindici minuti. "Cinque minuti alla fine", annunciò l'altoparlante. Il mio vicino si tirò su e mi diede una gomitata: "Ora finisce la finta e comincia la vera lotta". In men che non si dica l'indiano lanciò a gambe in aria il massiccio polacco, seduto sul suo torace da ormai cinque minuti, e poi con un urlo micidiale gli piombò addosso, gli
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==