34 In questa e nelle immagini seguenti, esempi di arte nigeriana, dal volume Kunst aus dem Alten Afrika, di Maria Kecskési (PinguinVerlag, Innsbruck e Umschau- Verlag, Frankfurt/M., /982). ca. Per fare un esempio, si pensi al romanzo, genere letterario che è uno sviluppo di quella che un tempo era la narrazione orale. Il racconto orale si è trasformato in forma scritta: ma qui non è tanto la forma scritta che conta, e che contribuisce alla percezione estetica del lettore - anche se naturalmente non voglio qui sottovalutare l'importanza della lingua, dello stile, eccetera -, quanto il tema africano, grazie al quale chiunque scopre subito, alla lettura, se si tratta di un'opera africana o meno. Il dio Obatala è sempre rimasto africano, anche quando dallo yoruba Orisa-nla è diventato il brasiliano, e cristiano, Oxala di Bahia. Attraverso questi elementi antropologici si può immediatamente individuare il contributo africano a un mondo che oggi è di tutti, è - diciamolo pure - universale. Il problema della decolonizzazione è secondo me un problema reale, ma che riguarda un aspetto diverso della lettura critica che viene sovente fatta dagli occidentali. Faccio un esempio: il critico prende un romanzo africano, come Le regard du roi di Camara Laye, e gli appiccica sopra l'etichetta di "kafkiano". Questo è insensato; non c'è nessun rapporto fra Laye e Kafka, non si può capire Laye attraverso Kafka, perché Laye esplora degli aspetti del pensiero africano che sono assolutamente africani, e, se si riporta il suo romanzo alla dimensione di Kafka, si perde il filo d'oro del quale Laye fornisce chi lo sappia leggere. Analogamente, se si considera Devoir de violence di Yambo Ouologuem, bisogna smetterla di dire che prende a prestito elementi stilistici europei, e bisogna invece capire che si tratta d'un romanzo forte e originale che rielabora la storia dell'esperienza africana. Ebbene, il libro di Ouologuem è stato trattato vergognosamente male dai critici, che lo hanno interpretato come un prodotto di imitazione, mentre è un'opera assolutamente originale, un'opera d'arte che ha in sé le proprie ragioni di essere. I critici sono incapaci di avvicinare un'opera che abbia dei pregi di originalità, perché loro ragionano solo per analogia: ossia, un romanzo secondo loro assomiglia a Kafka, oppure a Joyce, oppure a Proust. Perciò da questo punto di vista è assolutamente necessario decolonizzare la critica che vede nella produzione letteraria africana un frutto derivato del mondo europeo, come se noi avessimo ricevuto di peso una forma artistica europea; ed è necessario svergognare quei cosiddetti critici che accusano alcuni di noi di essere dei puri imitatori, quasi noi avessimo invidia dei bianchi. Anch'io sono stato accusato una volta di quello che qui chiamerò "bianchismo", cioè di desiderio inconscio di diventare bianco: e accadde a proposito d'una mia lirica intitolata Ai miei primi capelli bianchi. Quel critico disse che io avevo tradito una mia occulta aspirazione alla pelle bianca. Un'altra volta, quello stesso critico europeo disse, a proposito d'una mia lirica in cui esprimevo il mio stato d'animo dopo aver assistito ai massacri della guerra civile in Biafra - uno stato d'animo di stupefazione, di alienazione, di orrore -, che io rivelavo delle derivazioni imitative, perché dicevo "ho preso a prestito stagioni forestiere": capito? Sì, perché mai, secondo lui, uno scrittore africano dovrebbe prendere a prestito stagioni forestiere, se non per imitare? Così disse quel critico, il quale si rifiutava di leggere la metafora. Questa non è critica, questo è tarzanismo. Quando si fa della critica, bisogna sapere di che cosa si parla, sapere che cosa è effettivamente la poesia, e la sensibilità del poeta; la sua esperienza, il suo linguaggio. Trattare di estetica non equivale a accumulare chiose colonialistiche sulle influenze europee, come fanno tanti universitari occidentali. Trattare di estetica non significa atteggiarsi a puristi difensori di un supposto africanismo che di fatto non esiste. Sarebbe come dire che uno scrittore africano, per essere veramente tale, non dovrebbe usare il vocabolo "aereoplano", bensì riferirsi all"'uccello di ferro": il livello di idiozia cui giungono i critici è incommensurabile, perché secondo loro è realistico che un africano chiami "uccello di ferro" quello che di fatto è un aereoplano. Questo ridicolo purismo, questo persistente e codino colonialismo - di cui io ora do degli esempi paradossali, per amor della chiarezza - è più diffuso di quanto si creda. La bicicletta dovrebbe essere il "cavallo d'acciaio", il treno il "serpente fumante", e così via. Queste associazioni pseudoafricane, nate da una visione hollywoodiana e tarzanistica dell'Africa, non servono che a perpetuare l'ignoranza e a degradare il mestiere del critico. Questo è quello che io chiamo tarzanismo. • Quando lei è entrato in teatro, ieri, io ho pensato prorio alla lirica che lei ha appena citato, Ai miei primi capelli bianchi. Quando l'ha scritta, nel 1967, lei aveva soltanto tre capelli bianchi, e il suo romanzo Gli interpreti era uscito da soli due anni. Ora i suoi capelli bianchi sono molti, molti di più, e ormai non si contano. Che cosa è cambiato con il passare degli anni? In che modo è cambiato il suo rapporto con la scrittura, ora che possiede i "brulicanti lustrini di una corona"
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