CENAINAMAZZONIA Timothy Findley a Robin Phillips Dorse era colpa della casa. Un tempo era stata l'orgoglio di Olivia: il suo posto, accogliente, sicuro. Tutti gli altri - compreso Michael - la trovavano deliziosa. Prestigiosa. Comoda. North Seton Drive era un indirizzo perfetto. Uscendo da Rosedale, giù verso la gola, tutti i giardini dietro le case avevano alberi e prati ondulati. In autunno e in primavera, Olivia poteva allegramente andare a piedi o in bicicletta a Branksome Hall, dove insegnava ormai da sei anni. Davvero non aveva motivo di lamentarsi. Il numero 38 era una bella casa - coi vetri scintillanti; l'intonaco intatto. Di recente, comunque, Olivia aveva cominciato a rifiutare l'atto fisico di arrivarci; di essere sul marciapiede e svoltare verso la casa, ammettendo così di dover camminare su quel cemento, di dover passare attraverso quella porta d'ingresso. Sul prato c'era sempre qualcosa che Olivia rifiutava di considerare suo; uno ''Star'' umido e stracciato, oppure un pezzo di buccia d'arancia - (non ce l'ho messa io!) - qualche oggetto lasciato dal bambino di un vicino, o dal cane di qualcun altro. Perfino, una volta, un sinistro paio di mutande azzurre da uomo. Dentro, la casa emanava odore di scontento; di cenere nel lavandino e pantofole vaganti per i corridoi la sera; di scismi che arrugginivano come un servizio di coltelli. Anche l'odore - vagamente simile a quello ascellare - della petulanza di Michael e del silenzio di Olivia, nascosti negli armadi. Buuu ... Quel giorno, il ventotto di aprile, Olivia entrò in casa con le braccia cariche di fiori alle cinque del pomeriggio. I fiori erano avvolti in coni di carta verde, ma la loro fragranza saliva su ugualmente, da sotto il mento, e Olivia si fermò nell'ingresso senza parlare - in ascolto - ebbra del profumo di fresie. Michael era da qualche parte là dentro. Sopra, nella stanza con le vetrate, probabilmente. Ubriaco. La macchina di Conrad era nel viale, con il paraurti già rovinato schiacciato contro la porta del garage. Questo poteva soltanto voler dire che erano entrambi ubriachi: non solo Michael, anche Conrad. Vecchi amici e bottiglie vuote. Povero, insopportabile Conrad, che si trascinava dietro il proprio indesiderato passato con tutte le sue agendine logore e i suoi amori filacciosi, era venuto "a trovarli per un po'" - aveva cioè intenzione di piazzarsi fino a quando si fosse rimesso in sesto. All'inferno i vecchi amici. Non era sopportabile. Non c'era tempo per il passato nella loro vita. Non c'era. Non c'era stato. Non ci sarebbe stato mai. Il passato ti respingeva negli angoli e spegneva le luci. Poi ti tormentava con sensi di colpa e rimpianti e ti lasciava incapace di esprimerti e di agire. Chi le vuole, queste cose? Ne ho già abbastanza delle batoste delpresente, grazie tante; pensò Olivia. Maledizione, Conrad. Ti voglio bene, ma se non fossi venuto, ora potrei parlare con Michael. Adesso. Stasera. Potrei dirgli tutto e farla finita. No non potrei. Olivia guardò a sinistra, verso la luce fioca dello studio di Michael con gli scuri accostati. Cercò di immaginare la cosa che aveva dentro la pancia infilare di corsa quelia porta verso l'ombra in cerca di suo padre. Era impossibile. Lui gli avrebbe sbattuto la porta in faccia. Fuori di qui! Sapeva che quella era solo una scusa vigliacca. Michael non odiava i bambini: odiava il futuro - e questa era una cosa diversa. Michael odiava tutto quello che non riusciva a controllare: odiava tutto quello che non conosceva. La certezza era l'unico vero alleato, nei libri di Michael. La certezza e la letteratura. La storia - (forse) - e qualche poesia scritta sul rovescio di una busta. Michael voleva dei figli, ma non voleva che le loro vite proseguissero oltre la sua. Non sopportava l'idea di immetterli nel futuro - nel passato soltanto. Michael avrebbe potuto dir loro, "Tutto quello che vi ho detto era la verità. Non vi ho mai mentito. E tutto confermato da quello che avete visto: le cose note - sicure." Il futuro era il suo nemico. Nello studio di Michael c'erano pile e pile di quaderni d'appunti e risme di carta. Erano le sue diatribe - alcune vecchie di quattro, sei, dieci anni. Erano coperte di muffe di marmellata d'arance e di funghi di pasta di arachidi. Olivia sorrise. Il tappeto era macchiato dei suoi solipsismi. L'aveva sentito ruggire, là dentro, tra i suoi libri - rovesciando i bicchieri - puntandole contro il dito: "Aspetta, Olivia, aspetta e vedrai! Ogni parola che dico è vera ... '' Poi doveva verificare ogni parola - tirando giù tutti i libri giusti, tirando fuori tutti i fogli di carta giusti, e impazziva - sbraitava - quando non riusciva a trovare quello che voleva. A modo suo, era una stanza triste, morta. Echi nascosti tra le tende. Le caselle della ribaltina puzzavano, Olivia sarebbe stata disposta a giurarlo, di piccione: di tutti i piccioni volati via coi loro messaggi - le parole che Michael non riusciva a trovare. In una ciotola, teneva tutte le graffette attaccate a elastici - pronto a prender di mira i cortei e le sfilate che passavano sotto casa o qualunque intruso osasse sfacciatamente ricordargli il futuro: uomo, donna o bambino ... No, non potevano esserci bambini. Olivia si girò verso la cucina, tendendo l'orecchio in direzione delle scale, nella speranza di cogliere il suono di una sobria conversazione. O addirittura di una risata. Ma non udì niente. Solo il silenzio tra un bicchiere e l'altro. Las&ù, al piano di sopra, stavano probabilmente trattenendo il fiato: Michael e Conrad, nascosti. Si nascondevano da lei. Non tradire il nostro segreto, Connie. Non dobbiamo farle sapere che abbiamo solo dieéi anni, lei crede che ne abbiamo almeno dodici. Olivia prese una gran boccata d'aria che la lasciò ansimante in attesa di un'altra. Era proprio la casa: la sua aria viziata; i suoi culs de sac; i suoi trabocchetti in attesa delle vittime. Aveva perso la capacità di generare sogni. Rifletteva soltanto, da una stanza all'altra, il nitido orrore di quello che stava per succedere in realtà.
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