Linea d'ombra - anno II - n. 11 - settembre 1985

avanti diventano statue di sale."), che protrebbe concernere, ma non solo, la categoria sulla quale. s'intende qui discettare: quella dei sociologi italiani•, anzi strapaesani, la cui miseria non è da dimostrare, ma sulla quale non è mai male insistere. In realtà, la trasformazione dei sociologi in opinion-maker e di quasi tutte le categorie intellettuali in opinion-maker è avvenuta da tempo, è una delle iatture nazionali dell'ultimo decennio, risultato di quella dilatazione del potere dei media nella formazione e riaffermazione del consenso attorno al presente regime, che ha però, come giusta vendetta, fatto dei giornalisti e degli intellettuali giornalistizzatisi dei meri funzionari di esso. Tutti giornalisti, insomma, e tutti servi, in lotta tra loro a chi meglio sa vendersi servire facendo mostra d'indipendenza e originalità (proprio come le "sagome" di Quei/i della notte). In questo contesto, l'unico pensatore efficace - in grado di influire davvero sui politici oltre che sui giornalisti - risulta in definitiva De Rita col suo Censis, narratore ed esaltatore di un'Italia vivace e produttiva, "creativa" quanto un indiano metropolitano di un anno che fu o di un capocamorra campano o piemontese o socialista di oggi. Non è dunque un caso che si possano considerare Arbore e Altan come due sociologi di vaglia, certo i migliori, se raffrontati con quelli laureati e famosi sotto questa qualifica. Ma il primo è uomo di regime, e il secondo no. Entrambi sanno narrarci l'Italia dei nostri anni come nessuno, ma il primo è senza dubbio il miglior allievo e divulgatore, sul piano dei media, come De Mita e Craxi lo sono su quello del potere politico, dell'ideologia deritiana, per intima adesione e convinzione; mentre il secondo è il migliore e più sistematico denigratore della suddetta creatività, quello che ne vede meglio il risvolto di volgarità e, non troppo nascosto, di orrore. Per di più, attentissimo analista dei comportamenti politici, di un'acutezza che nessun politologo - sottospecie dei sociologi oggi in gran voga - ha mai saputo dimostrare. In termini fuori moda, potremmo anche definirli il "miglior sociologo di destra" e il "miglior sociologo di sinistra" dell'Italia contemporanea. Su Altan si può dire molto, ma è preferibile, oggi, puntare l'attenzione su Arbore, non tanto per il suo successo presso gli intellettuali e i politici e le loro sottospecie giornalistiche, quanto perché noi siamo con Altan, nella sua irriverente e brutale visione delle cose, per fortuna senza lacrime e consolazioni per nessuno (ed è il motivo per cui consideriamo per esempio Staino e il suo Bobo come il Ferrini dei pedalò, come un altro membro ad honorem della tribù arboriana, né più né meno, e col patetico come aggravante), nella sua volontà di non smettere di giudicare, di guardare le cose in faccia indifferente ai ricatti dell'apocalittismo quanto a quelli dell"'edonismo reaganiano" che ha fatto strage nella ex sinistra e nei suoi giornali. Arbore, dunque. Piccolo goliardo che ha ben capito come la goliardia sia il vero segno unificante dell'edonismo reaganiano come della nuova filosofia, del vecchio comunismo reale (quello dell'Italia centrale) come del vecchio familismo che si riproduce aggiornato per cosche e congreghe, corporazioni e correnti, bande e parrocchie; piccolo portavoce e maestro di una cultura che unifica e nobilita tante sottoculture. Tutti individualisti, i suoi personaggi, mostrati nei loro tic e nei loro look, e nella loro sistematica rivendicazione di un'originalità purchessia, affermata con ostinazione certosina. L'Italia è un paese senza dubbio originale e creativo, in cui nessuno pretende somigliare a nessun altro, ma è forse proprio questo il segno vero del disastro: l'omologazione è passata attraverso la differenziazione e le apparenze della diversità. Arbore ci fa piacere ciò che, nella vita quotidiana di ciascuno, è sommamente frustrante ed esasperante: perché dietro il tic e il look (sia pure quello del ministro capellone o dello psicanalista col farfallino) non ci pare di scorgere altro che una immensa e disperata stupidità, che nei più deboli porta a forme pure e semplici di disgregazione DISCUSSIONE/FOFI mentale. Arbore ci descrive abilmente l'aspetto dolce e innocuo di una follia solipsistica dilagante, di un'incapacità di dialogare con gli altri, e di darsi scopi e culture comuni che non siano quelli del consumo delle mode e delle apparenze. Addobba e vira allegramente al rosa la nevrosi di un acuto conformismo. Ci fa digerire e piacere qualcosa che è di per sé ripugnante o disperatamente sconfitto, poiché la scelta è ormai solo tra una vitalità da cavallette e una da vezzosi e fastidiosi mosconi. È un grande sociologo, Arbore, oltre che un grande uomo di spettacolo: quello che più di tutti ha capito la piccola borghesia italiana odierna e che meglio sa renderla in forme riconoscibili e compiacenti. Quei filosofi e quei preti, quelle signore e quei signori, quei comunisti e quegli intellettuali che ci mostra sono uno specchio iperrealistico di ciò che l'Italia è diventata; e che solo lui sa raccontare così bene e così allegramente. Rendiamogliene merito e dichiariamolo, senza pudori, narratore e servitore emerito, primo e più brillante poeta di corte di un sistema e di una società di terrificante conformismo e vacuità. La notte è appena cominciata. Viva Arbore e viva l'Italia. La tristezza delle pianure Con Narratori delle pianure (Feltrinelli, pagine 146, lire 15.000) Gianni Celati torna alla narrazione dopo qualche anno di silenzio, e poiché i suoi vecchi libri (Comiche, Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri), anche se non coronati da un grande successo di pubblico, sono stati tra le poche cose notevoH del passato decennio, era ovvio che questi racconti destassero l'interesse dei suoi affezionati come dei critici più avvertiti e meno corrotti. E poiché anche questo, di decennio, non ci pare aver molto da offrire in Italia in fatto di letteratura - a parte i soliti e un po' stanchi seniores - si è stati in generale propensi a trattare Narratori delle pianure con un'attenzione benevola, ma anche piuttosto generica. Per rispetto nei confronti dello scrittore (meno, forse, del "maestro", ché Celati è stato una delle colonne del Dams e ha formato diversi allievi di scarso fiato e di molta moda) varrà la pena di esprimere plauso e riserve senza tener conto della miseria letteraria dei nostri anni, giudicando il libro per quelli che ci sembrano i suoi molti meriti e i suoi limiti. Celati avverte come pochi il disagio, quasi lo "spiazzamento" degli abitanti del nostro paese, in questi anni di ovattato conformismo e di cupo benessere, avvertibili 15

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