12 DISCUSSIONE/CHERCHI "Ha senso scrivere un romanzo visto com'è ora il Perù, visto che ora tutti i peruviani hanno la vita legata a un filo?", pag. 142)e senza trasformare eventi di forte significato politico in mero materiale letterario (cioè senza "romanticizzarli"). L'anacronismo evidente della predicazione del Consigliere consente a Vargas Uosa di vederne l'opera in una luce comprensiva, additando soprattutto la brutalità del moderno potere che lo perseguita (ma il rifiuto del messianismo è scontato, non meno esplicito). L'attualità dei percorsi alla Mayta impone invece di depotenziarne la carica suggestiva, toccando soprattutto il tasto del patetico e del ridicolo (tragico rimane, tuttavia, lo sfondo, in un Perù immaginato già dentro una guerra civile). Politica e letteratura, romanzo e lettura sociologica (se Arguedas è il' narratoreantropologo del Perù, certo Vargas Uosa ne è il romanziere-sociologo: alcune descrizioni di ambienti e tipi umani sono autentici brevi saggi di sociologia), si rincorrono nel lavoro di Vargas Uosa e giungono a fondersi con una naturalezza rara nella letteratura d'oggi. Sicuramente sconosciuta a quella italiana attuale, che pure non difetterebbe di fonti d'ispirazione. Vi sono, in Storia di Mayta, tanti di quei tipi e di quelle situazioni che non starebbero fuori posto nell'Italia degli ultimi vent'anni, da riempire pagine e pagine. In mancanza di versioni italiane, comunque, possono bastare gli echi che Vargas Uosa fa risuonare presso quanti, specialmente nella sinistra vecchia e nuova, quegli anni hanno percorso dentro la politica (e questi anni percorrono almeno guardandosi attorno: se i compagni di Mayta rappresentati all'epoca del tentativo insurrezionale sono patetici, quelli che il narratore ritrova oggi, per intervistarli, sono spesso disgustosi e cinici). Insieme alla spiccata connotazione politica, è stata generalmente notata un'altra dimensione caratterizzante Storia di Mayta: la struttura narrativa, il modo di funzionare, di farsi, del romanzo. In realtà, il libro potrebbe anche essere letto come una sorta di manuale per scrivere romanzi. Sì è detto che il narratore scrive al presente, cercando notizie su Mayta e la rivolta del '58 attraverso interviste a ex compagni o conoscenti e congiunti e visitando i luoghi della vicenda. Nel procedere del racconto - che trapassa senza soluzione di continuità dal '58 a oggi, intercalando alla storia dell'inchiesta la "presa diretta" sugli avvenimenti più lontani, con l'ingresso in scena di Mayta e degli altri protagonisti - i meccanismi si esplicitano e il congegno narrativo ci si profila nitido. Poco prima di giungere al finale abbiamo in mano tutti gli elementi: c'è un "pretesto", un fatto di partenza (Jauja, 1958); c'è un personaggio (Mayta) conosciuto dall'autore nell'infanzia e poi perso di vista; c'è uno scrittore sensibile alla storia politica e sociale del suo paese. Questi inizia l'indagine, raccoglie il materiale documentario ("per mentire con conoscenza di causa", dice), lo organizza e lo struttura in una storia che si svolge in due tempi che scorrono paralleli e si alternano sulla pagina scritta. Romanzo diventa la vicenda del '58, ma romanzo è anche l'inchiesta documentaria, lo sono i colloqui e le riflessioni, le note d'ambiente che l'inchiesta suggerisce. Come le cose della vita, insomma, che non vivono mai in una sola dimensione ma giocano a nascondersi e a comparire tra memoria, sogno o fantasia, ed esperienza vigile. Come l'accertamento del reale, o del passato storico, che corre sempre sul limite equivoco (e suggestivo) tra notizia e invenzione. Smontando e rimontando il meccanismo, Vargas Uosa esalta lo strumento conoscitivo e comunicativo che si esprime nella forma-romanzo, sottolineandone la ineguagliata capacità di accogliere la dimensione multipla della vita. Avvicinandoci al finale e soprattutto quando si annuncia l'incontro tra il narratore e Mayta, ritrovato a distanza di tanti anni, quest'impressione si fa più forte e si carica di nuovo fascino. Si attende un incontro che ricongiunga narrazione e vita, romanzo e realtà, chiudendo in modo perfetto il cerchio del congegno. Ma proprio l'incontro fa saltare questa "perfezione" (che, ce ne accorgiamo, sarebbe r"isultata artificiosa): Mayta è tutt'altro personaggio da quello fin lì descritto, è lontanissimo dall'episodio che il narratore ha tanto studiato, l'ha quasi dimenticato, non è omosessuale e, soprattutto, la sua vita reale -dopo il fallimento dell'insurrezione di Jauja - è stata assai più dura e "romanzesca" di quella ipotizzata nel corso della vicenda letteraria. Dopo aver ribadito le potenzialità enormi del romanzo, la sua insostituibile funzione (e averlo fatto con una vitalità, precisione e qualità di primo rilievo), in questo finale, notturno, tra le immondizie della sterminata periferia limefta, l'autore non può che constatare, insieme a chi legge, il primato della vita. Per il vero Mayta, come per il vero autore - e come per tutti - essa procede ineffabile, incurante dei congegni narrativi, delle sintesi e delle pause che è proprio del romanzo proporre. Sembrerebbe l'approdo a una dichiarazione d'impotenza, o a una svalutazione del lavoro letterario e creativo: in realtà proprio spingendosi ai limiti della narrazione e, da quel bordo, scrutando nel processo continuo e indifferente della vita, Vargas Uosa torna a farci sentire con forza, con desiderio, la necessità irrinunciabile del romanzo. ILMERCATDOEIPREMI GraziaCherchi È noto che non c'è città, paese, borgo, frazione in Italia che non bandisca il suo premio letterario, con tanti saluti alle finanze cronicamente dissestate e tante grazie ai malcapitati contribuenti. L'inflazione è tale .chepremi e premiati non fanno più notizia; qualche po' di spazio, più che altro per abitudine, i giornali lo riservano ancora ai tre premi più chiacchierati (Strega, Viareggio, Campiello), ma la lotta per accaparrarseli interessa solo editori, autori, promotori. Da parte sua, la gente, saggiamente, è sempre più riottosa ad acquistare a scatola chiusa finalisti e vincitori. Anche il ricordo delle battaglie del passato a favore dell'abolizione dei premi va estinguendosi, soprattutto per l'oggettiva difficoltà a ingaggiare oggi una qualsivoglia "battaglia culturale". Anni fa si era pensato tra amici, un po' goliardicamente, di assegnare a fine anno il "Coglione d'oro" al libro più orripilante, ma già allora (figuriamoci oggi) i concorrenti erano troppi e troppi figuravano a pari merito; di recente si è pensato di assegnare il "Pentito d'oro", ma anche in questo caso, sempre per via del numero abnorme di concorrenti, non è facile la scelta del vincitore. Lasciamo allora i premi al loro fatai crepuscolo e al loro stanco andazzo: ormai ogni sorpresa è abolita (quest'anno, ma anche l'anno scorso, si sapeva con mesi d'anticipo chi, ad esempio, avrebbe vinto lo Strega), e se in poesia imperversa il Vate pluridecorato, nella saggistica alligna sempre di più l'abitudine di premiare l'Autorità Indiscussa (anche un premio dignitoso come il Pozzale ha preferito quest'anno premiare l'Istituzione Bobbio: così Empoli ha avuto cfualche riga in più sui giornali, alla faccia del suo passato di segnalatrice di talenti meno noti e scontati). Sarebbe insensato prendersela con i premiati perché accettano i premi: i gran rifiuti di una volta (pochini, a ben pensarci) sono passati di moda (e finivano peraltro coll'incrementare le vendite). Così vediamo i vincitori precipitarsi a ritirare la mazzetta, cer-
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